Gli ultrà del Beitar Gerusalemme sono pedine di un gioco più grande
25 Marzo 2012
Amhad Tibi, leader del partito arabo-israeliano Ta’al, lo ha definito "un pogrom". Grazie al cielo però la gazzarra inscenata in un grande centro commerciale di Gerusalemme dagli ultrà israeliani tifosi del Beitar, al grido di "morte agli arabi", è finita senza spargimenti di sangue. Quindicenni che non hanno mai sentito parlare del "Betar" o di Jabotinsky, insieme ad altrettanti maschi adulti regrediti all’adolescenza, hanno insultato e preso a spintoni i palestinesi, in una forma di prevaricazione che conosciamo bene, essendo il nostro Paese ricco di tifoserie del genere, sempre asservite ad un padrone e ai suoi interessi. Conviene allora approfondire chi sia il patron del Beitar e come mai la curva abbia scelto proprio lunedì scorso per il "rampage" anti-arabo, rimbalzato nei giorni sussessivi sulla stampa e nel web. Dal 2005, il Beitar Gerusalemme è proprietà di Arcadi Gaydamak, umbratile figura dello spettro politico-economico israeliano. Se le cronache giornalistiche raccontano soprattutto le gesta del figlio come impresario nel mondo calcistico anglosassone, la carriera di papà Arcadi sembra più contorta e sfaccettata. L’uomo ha quattro passaporti, nasce in Russia, moscovita, e si trasferisce presto in Israele. Gode di un passaporto diplomatico dell’Angola, il Paese africano martoriato dalla guerra civile, che lui stesso ha contribuito ad incendiare fin dagli anni Ottanta. Gaydamak è coinvolto in una sequela di scandali sullo scambio di petrolio in cambio di armi, "l’Angola-gate", fucina di trame misteriose che lo portano di nuovo a Mosca, stavolta quella putiniana, dove acquista il rango di oligarca. Condannato in Francia per le operazioni in Africa (ma Parigli lo ha decorato per il suo ruolo di mediatore nella ex-Iugoslavia), si rifugia in Israele. Nello Stato ebraico, Gaydamak gioca una sua partita politica spregiudicata, correndo, senza successo, alla carica di sindaco: la sua visita al Gran Muftì di Gerusalemme però piace poco agli elettori. Cerca di recuperare con le tendopoli fatte sorgere per accogliere i profughi nord-israeliani colpiti dai bombardamenti di Hezbollah durante l’ultima guerra in Libano, ed altre lodevoli iniziative caritatevoli, diventando uno sponsor di quella "destra sociale" che pensa al welfare in chiave prettamente elettoralistica. L’ala dell’emigrazione ebraica russa in Israele è uno dei blocchi di consenso, quello più utile in termini di popolazione, ortodossia, e sviluppo economico, su cui si regge la maggioranza di Benjamin Netanyahu. La domanda è se i cori vergognosi intonati dagli ultrà a Gerusalemme rispondano a un timing più complesso scandito dalla "manina" di Gaydamak. Un calendario che viene dopo la strage di Tolosa (di nuovo la Francia) e nel contesto delle grandi manovre del governo israeliano per colpire l’Iran atomico. In attesa del prossimo round elettorale.