Gli Usa e Israele sono ai ferri corti perché il “processo di pace” è fallito

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Gli Usa e Israele sono ai ferri corti perché il “processo di pace” è fallito

17 Marzo 2010

Netanyahu risponde picche all’amministrazione Obama annunciando che il piano per la costruzione dei nuovi insediamenti a Gerusalemme Est proseguirà, i palestinesi scendono in piazza per la “Giornata della rabbia” e Hamas minaccia di scatenare la “Terza Intifada”, Obama annulla la visita dell’inviato Mitchell in Medio Oriente e pone le sue condizioni all’alleato israeliano: marcia indietro sugli insediamenti e inclusione dello status di Gerusalemme nel negoziato con l’ANP. Ma a guardare come sono andate le cose negli ultimi giorni, si può dire che il processo di pace iniziato a Oslo nel 1993 è definitivamente fallito. Lo stato ebraico ne esce indebolito sul piano internazionale, attaccato dai suoi alleati di sempre – gli Usa – e pesantemente redarguito da Mister Pesc e dal Segretario generale delle Nazioni Unite, che dichiara: “A Gaza è tempo di cambiare direzione”.

La scelta del ministero degli interni israeliano di annunciare la costruzione degli insediamenti proprio durante la visita del vicepresidente americano Biden è stata intempestiva, come pure è facile prendersela con i coloni, credendo che proprio gli insediamenti hanno finito per minare l’autorità, la legge e la stessa democrazia israeliana. In realtà, come ha scritto Bret Stephens, quella israelo-palestinese non è semplicemente una questione “territoriale”, bensì “esistenziale”, una lunga Storia in cui lo Stato ebraico, con il passare del tempo, ha accettato di fare sempre più concessioni ai suoi rivali, abituandosi all’idea di dover vivere a fianco della nazione palestinese, mentre al contrario né l’ANP né tantomeno Hamas sono mai stati propensi a fare lo stesso con gli israeliani. Il risultato del processo di pace e della politica delle concessioni, quindi, è stato quello di alienarsi gli alleati e di finire alla stregua di uno “stato-paria” all’interno della comunità internazionale.

Viene da chiedersi quanto sia convenuta una politica del genere ai governi che si sono succeduti in Israele, quanto siano state utili le proposte avanzate da Barak, Olmert e Netanyahu (la spartizione di Gerusalemme, una giurisdizione internazionale sui luoghi santi, uno status per i rifugiati palestinesi, per non parlare del ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza…), e se per Tel Aviv fosse stato meglio non cedere neppure un centimetro della “terra palestinese”, visti i risultati delle trattative. Da quando Israele ha legato la sua legittimazione internazionale alla politica delle concessioni, la sua reputazione si è costantemente ridotta, fino ad oggi, quando Obama si è rivolto a Netanyahu con dei toni tutt’altro che deferenti, anzi fortemente critici e prescrittivi. Un linguaggio, quello usato dalla Casa Bianca e dal Dipartimento di Stato, molto diverso da quello utilizzato con l’Iran nucleare e il suo alleato siriano, con i nordcoreani, Chavez e tutti gli altri avversari storici dell’America. Come ha scritto Elliot Abrams, il verbo usato dall’amministrazione americana, “condanniamo” la costruzione degli insediamenti, è incendiario, “e i funzionari americani di solito lo riservano per atti di terrore o per omicidi, non certo per questioni legate all’edilizia”.

Ecco dove ha portato il riconoscimento dei “diritti legittimi” dei palestinesi da parte dei politici israeliani dall’inizio degli anni Novanta ad oggi: i palestinesi hanno diritto di protestare contro l’occupazione, mentre Israele deve ritirarsi se vuole ottenere una coesistenza pacifica. Nel 2005, il ritiro da Gaza. Nel 2006, la promessa di Olmert di lasciare la West Bank. Il risultato: dopo il ritiro dalla Striscia gli islamo-fascisti di Hamas iniziano a martellare il Negev e le città israeliane con migliaia di missili e corpi di mortaio; Israele interviene con una operazione militare dolorosa, sanguinosa ma necessaria; la comunità internazionale condanna “Piombo fuso” e il rapporto Goldstone riduce i soldati israeliani a dei criminali di guerra. Ma basta guardare al numero delle vittime fra i palestinesi per comprendere quanto è stata fallimentare la politica delle concessioni: i morti a Gaza sono progressivamente aumentati dopo il ritiro dei coloni, mentre sono diminuiti nella West Bank, grazie alla barriera difensiva, ai valichi, alle stretta sulla sicurezza. Là dove questa sicurezza non c’è, Hamas si riprende il territorio, riorganizzandosi e usando gli scudi umani come deterrente.

Israele si è abituata a tutto, ai missili, agli scambi impari di prigionieri, ai kamikaze, finendo per credere che la sua stessa esistenza dipendesse dal processo di pace; ma ad ogni fallimento dei negoziati il conflitto si è inasprito. Per i palestinesi c’è poco da trattare e moltissimo da rivendicare: Gerusalemme Est capitale, il rientro di milioni di profughi arabi nello stato ebraico, la rinuncia da parte israeliana ad essere una democrazia che ha le sue radici nel mondo biblico. L’America e l’Europa, d’altra parte, hanno rinunciato a qualsiasi critica verso i palestinesi, mentre questi ultimi nel 2009 hanno sabotato l’andamento delle trattative, senza che l’amministrazione americana si arrischiasse neppure una volta a tirare per le orecchie Abu Mazen e i cosiddetti “moderati”.

Come ha spiegato Barry Rubin, gli Usa continuano a credere che per tenersi buoni gli arabi e il mondo musulmano devono puntare sulla soluzione del conflitto palestinese. In questa prospettiva, difendere i palestinesi dovrebbe servire a proteggere le proprie truppe in Iraq e Afghanistan, e a preservare il suolo americano da nuovi attacchi di Al Qaeda; se non fosse che questi scenari non hanno nulla a che fare con la “causa” palestinese. Al Qaeda non ha in mente di distruggere l’Occidente per vendicarsi delle ingiustizie israeliane, vuol farlo perché è animata da una ideologia imperialistica. 

Le parole rivolte da Netanyahu all’alleato americano lasciano intendere che forse è venuto il momento di finirla con il mito della “pace a tutti i costi”. Israele, ha detto il premier, non deve tirarsi indietro: “Le costruzioni a Gerusalemme andranno avanti, secondo quella che è stata la consuetudine negli ultimi 42 anni”. Lo stato ebraico non rinuncerà ai suoi territori, che non sono una specie di “compensazione” per l’Olocausto, come ha detto una volta Obama, ma appartengono al popolo ebraico da migliaia di anni. Una linea intransingente che ieri ha spinto il segretario di Stato Clinton a più miti consigli: Washington "ha un impegno assoluto a difesa della sicurezza di Israele. Abbiamo un legame stretto e indistruttibile tra Israele e gli Stati Uniti". Se la Casa Bianca vira a sinistra, infatti, il Congresso, gran parte del Partito Democratico, e la maggioranza degli americani non hanno intenzione di tradire Israele.