Gli Usa hanno bisogno di una nuova iniezione di fiducia

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Gli Usa hanno bisogno di una nuova iniezione di fiducia

25 Dicembre 2007

Giunti agli ultimi mesi della Presidenza Bush, circa due terzi degli americani hanno concluso che la Guerra in Iraq è stata un errore.  Più generalmente, quasi tre quarti della popolazione reputa che il paese sia “sulla strada sbagliata”: un numero impressionante, considerando che non si tratta di un anno di recessione.

Moltissimi americani privilegiano la posizione dei Democratici riguardo a quasi tutte le politiche pubbliche. Cinque americani su tre ritengono i Democratici più competenti, due su uno più eticamente corretti: sostengono che i Democratici sono più attenti verso “le persone come loro”. Gli americani preferiscono il punto di vista Democratico persino in merito alle tasse.

Il giorno in cui fu decretata la rielezione del Presidente Bush, nel 2004, un pari numero di americani si riconosceva nei Democratici o nei Repubblicani. Entro la fine del 2007, i Democratici saranno in grado di battere i Repubblicani 3 a 2. La generazione di americani che ha compiuto vent’anni tra il 2000 e il 2005 si identifica nei Democratici con la maggioranza più schiacciante tra tutte le fasce d’età, sin da quando i sondaggi elettorali moderni cominciarono, dopo la Seconda guerra mondiale.

Dal 2003, anche il formidabile vantaggio dei Repubblicani nell’ambito della raccolta fondi è andato crollando. I siti internet del Partito Democratico attraggono movimento ed accendono entusiasmi più di qualsiasi altra iniziativa dei Repubblicani o dei conservatori in generale. Il Partito Repubblicano è demoralizzato e senza ispirazione; i Democratici sono uniti e pieni di energia.

I Repubblicani offrono per la campagna Presidenziale del 2008 una pletora di candidai competenti e preparati; i Democratici, due neofiti ed una ex first lady. Ciò nonostante, mentre le manovre elettorali hanno inizio, quasi tutti questi tremendamente deboli candidati Democratici hanno battuto ogni eccezionale Repubblicano nei sondaggi testa a testa.

I conservatori raggiunsero il potere negli anni Settanta e Ottanta in seguito alle mancanze liberal. Ora è il fallimento di noi conservatori che minaccia l’inizio di una nuova era Democratica. Invece di enumerare i nostri guai, il nostro atteggiamento è piuttosto quello di negarli. Invece di adattarci ai tempi che cambiano, preferiamo indulgere nella nostalgia per i successi dei tempi passati.

La campagna elettorale di Ronald Reagan nel 1980 si basava sulla promessa di ridurre le tasse sul reddito, e conseguì una vittoria decisiva. Da allora, altri Repubblicani hanno presentato proposte simili: Bob Dole nel 1996 e George W. Bush nel 2000. In entrambe i casi, i sondaggi hanno indicato uniformemente che il pubblico preferiva la riduzione del debito pubblico ai tagli alle tasse. I Repubblicani semplicemente non ci hanno creduto. Un consulente molto famoso mi disse nel 1996 che a prescindere da quanto la gente dichiarasse riguardo alle tasse, avrebbero sempre votato a loro favore: “Stiamo lasciando un cioccolatino infiocchettato nella riservatezza della cabina elettorale -e quando i votanti escono, c’è una carta sul pavimento”. Le cose non andarono esattamente a quel modo, e per ragioni che non potevano essere previste.

Quando i Repubblicani parlano di “ridurre le tasse”, intendono “ridurre l’imposta sul reddito”. Tuttavia, dopo circa tre decenni di tagli alla tassa sul reddito, gli americani non pagano più cifre alte sotto questo aspetto. Per l’appunto, quattro contribuenti su cinque ora versa per l’imposta sul monte salari una cifra superiore a quella per l’imposta sul reddito. Negli Stati Uniti, quasi 29 milioni di nuclei familiari -pur percependo un certo reddito- non pagano alcuna tassa su di esso. Contrariamente, il noto 1 per cento dei contribuenti al vertice paga più di un terzo dei proventi complessivi dell’imposta sul reddito. Questo 1 per cento guadagna cifre spropositate, certo; ma rappresenta  pur sempre l’1 per cento dei voti.

Il successo del conservatorismo ha similarmente accantonato la questione della criminalità. Nel solo 1974, una famiglia su tre era stata vittima di almeno un crimine grave. Vessati e impauriti, gli elettori stabilirono che la criminalità era il problema più importante che il paese doveva affrontare. Tra il 1999 e il 2000, il tasso di criminalità scese drasticamente -giunto il 2006, la criminalità era precipitata al nono posto della lista dei sondaggi Harris che decretava cosa preoccupasse i cittadini, dopo il terrorismo/la sicurezza nazionale, l’economia/i posti di lavoro, i prezzi dell’energia, la sanità, l’istruzione, l’ambiente, la previdenza sociale e la povertà.

Dove è finite l’inflazione? Gli americani si lamentano del costo della vita: questo è quanto emerge da numerosi sondaggi del 2005. Ma l’inflazione come intesa negli anni Settanta -un innalzamento generale del livello dei prezzi- si è ridotta quasi a zero. Gli aumenti dei costi che mettono in difficoltà la gente oggi sono da ricondurre al costo altalenante dei beni variabili (petrolio, benzina, cibo), così come agli andamenti di alcuni mercati chiave, distorti dagli interventi e dai sussidi statali (immobili, sanità e tasse universitarie). In entrambe i casi, le politiche monetarie che furono impiegate per fermare l’inflazione negli anni Settanta non sarebbero di grande aiuto oggi.

Nel 1994, l’insoddisfazione pubblica nei confronti del welfare condusse gli elettori verso il Partito Repubblicano. Ora i costi sociali stanno nuovamente aumentando, ma è il Grand Old Party che ne paga il prezzo, non i Democratici. Nel 2001, il Presidente Bush e il Congresso Repubblicano ripristinarono la possibilità per gli immigrati di fare domanda per gli schemi di assistenza sociale. Nei cinque anni successivi, il solo programma per i buoni pasto aumentò vertiginosamente, fino a comprendere 9 milioni di persone in più.

Non sono mutati solo i problemi. È il paese che sta cambiando, e in modi decisamente complicati per il Partito Repubblicano.

I Repubblicani traggono le loro forze dall’America di razza bianca, I Democratici da quella di colore. Gli americani di origine europea sono in rapido declino: dall’80 per cento della popolazione nel 1980, al 70 per cento nel 2000 fino a raggiungere -se continueremo in questa direzione- probabilmente la soglia del 60 per cento entro il 2020.

Le donne sposate votano Repubblicano, quelle non sposate Democratico. La percentuale di donne che non si sposano entro i trent’anni è duplicata tra il 1980 e il 2000.

I genitori votano Repubblicano, chi non ha figli vota Democratico. Tra il 1980 e il 2000, la percentuale di donne che non hanno avuto figli entro i quarant’anni è anch’essa duplicata.

I credenti votano Repubblicano, i laici votano democratico. Seppure sia notoriamente difficile misurare quanto i cittadini vadano in chiesa, tale tendenza è apparsa in netto declino sin dal 1970. Sino al 2000, si suppone che almeno un quarto degli americani non ha partecipato mai, o raramente, ad una funzione religiosa. Quasi il 15 per cento degli americani si definisce in ogni caso “non religioso”.

Chi ha ricevuto un livello di istruzione media vota Repubblicano, mentre chi ha un’istruzione di livello molto alto oppure molto basso vota Democratico. Tra il 1980 e il 2000, la percentuale di americani in possesso di una laurea è salita alle stelle: da un numero talmente esiguo da non venire nemmeno calcolato dal Census Bureau, a circa il 9 per cento della popolazione. Nel contempo, a malapena metà della popolazione appartenente alle minoranze in rapido aumento consegue il diploma superiore.

Se consideriamo una famiglia bianca, sposata, di classe media, di mezza età, con figli, e che frequenta regolarmente una parrocchia, stiamo molto probabilmente contemplando elettori Repubblicani. In luoghi dove si va regolarmente in chiesa e la carriera militare è comune, i Repubblicani hanno successo. Coloro che hanno terminato gli studi superiori ma non l’università, coloro che guadagnano più di 75.000 dollari l’anno ma meno di 200.000, presumibilmente appartengono al “grande centro” Repubblicano. Più gli elettori si dichiarano d’accordo con il principio secondo il quale chi lavora sodo ha diritto ad andare avanti; più reputano che le regole siano generalmente giuste; più sono “estremamente orgogliosi” di essere americani, più è probabile che essi voteranno per il Grand Old Party. Ed è precisamente questo “grande centro americano” che si sta restringendo di fronte ai nostri occhi.

Dopo le preoccupanti elezioni del 1996 e del 2000, il grande osservatore politico Michael Barone tentò di sollevare il morale dei Repubblicani  facendo loro notare che l’America “rossa” aveva più figli dell’America “blu”. I conservatori potevano anche rischiare di perdere contro i liberals -ma almeno li stavano superando demograficamente! Allo stesso modo, Phillip Longman -un autore liberal interessato alla demografia- si preoccupava del fatto che, dopo le elezioni del 2004, il tasso di fertilità medio negli stati che votavano per George Bush fosse più alto dell’11 per cento rispetto agli stati che votavano per John Kerry.

Ma tutto questo, a ben guardare, non rappresenta realmente una buona notizia per i Repubblicani. La ragione per cui gli stati rossi hanno così tanti bambini in più rispetto agli stati blu è che i primi hanno un numero molto maggiore di immigrati ispanici. E tale popolazione ispanica, in costante aumento, sposterà lentamente -ma inesorabilmente- gli stati rossi nella colonna blu.

Questo è quanto è accaduto in California, un tempo roccaforte del Partito Repubblicano. La California preferì Nixon a Kennedy nel 1976. Dal 2000, la California è diventata uno stato a “maggioranza minoritaria” -ed una roccaforte Democratica. Per come stanno andando le cose, la Florida, il Colorado e persino il Texas seguiranno probabilmente la stessa via.

Il Texas è divenuto ufficialmente uno stato a maggioranza minoritaria nel 2006. Ad oggi, pochissimi texani ispanici hanno acquisito il diritto di voto; un terzo di texani ispanici non hanno la cittadinanza. Circa la metà dei cittadini ispanici del Texas sono minorenni, dunque nemmeno loro possono votare. Se questi non-cittadini saranno regolarizzati e naturalizzati -e quando i minori di diciotto anni cresceranno- il Texas possibilmente si muoverà in direzione dei Democratici.

Molti che tra noi si definiscono “di destra” vorrebbero credere che i Repubblicani si sono trovati nei guai per aver abbandonato i principi originari del conservatorismo. Anch’io ci vorrei credere; tuttavia, i fatti non confermano questa opinione. Al contrario, i dati suggeriscono che un’Amministrazione più coerentemente orientata verso idee conservatrici sarebbe stata ancora più intensamente sgradita alla gente di quanto è accaduto con la già impopolare Amministrazione Bush:

• I conservatori temono che Bush abbia speso troppo, e tagliato le tasse troppo poco. Tuttavia, la maggioranza degli americani voleva che il governo federale investisse di più, non che abbassasse le tasse. Più di cinque americani su quattro boccia la riduzione delle imposte volute da Bush, affermando che “non ne valeva la pena”. Quando nel 2004 si presentò la necessità di una scelta netta tra tagliare le tasse e parificare il bilancio, gli americani scelsero la parificazione del bilancio con un margine di 2 a 1. Quando l’opzione fu tagliare le tasse o aumentare le spese, 5 su 4,8 si dichiararono a favore dell’aumento delle spese. Durante il secondo mandato Clinton, più del 60 per cento degli americani si lamentava che la propria pressione fiscale fosse “troppo alta”; dal 2001, questa percentuale è scesa al di sotto del 50 per cento.

• I conservatori (me compreso) hanno criticato Bush per aver introdotto nel sistema Medicare un incentivo per i farmaci su ricetta, senza aver stabilito accordi corrispondenti per un taglio dei prezzi. Ma il consenso pubblico per questa manovra oscillava tra l’80 e il 90 per cento nel primo trimestre. Anche quando il pubblico fu avvisato del fatto che tali incentivi sarebbero costati più di 400 miliardi di dollari nel prossimo decennio, il consenso diminuì solo leggermente, non scendendo oltre il 75 per cento. Se Bush avesse seguito il suggerimento dei conservatori su questo tema, avrebbe potuto perdere le elezioni del 2004.

• Ai conservatori non piace la riforma dell’istruzione “No Child Left Behind” (Nessun Bambino Deve Rimanere Indietro) di George Bush. Noi avremmo preferito provvedimenti che promuovessero la scelta della scuola giusta, che penalizzassero le manchevolezze dei singoli istituti, e che riducessero gli stanziamenti federali nel campo dell’istruzione. Un pubblico poco informato tuttavia rifiuta tutte queste idee conservatrici. Quando interpellati riguardo alla possibilità di “chiudere le scuole che non assicurano un adeguato rendimento”, il 77 per cento degli americani si è espresso in maniera negativa. In merito al corso d’azione da adottare verso gli istituti chiaramente scadenti, il 77 per  cento degli americani ha risposto: “Date loro più soldi”. E riguardo al licenziamento di presidi e insegnanti negligenti? Gli americani approvano l’idea, ma in percentuale sorprendentemente ridotta: 56 su 40. Coerentemente con i dati forniti, un numero variabile tra il 60 e il 70 per cento degli americani respinge la possibilità di modificare l’esistente sistema scolastico pubblico in favore di una qualche alternativa ancora da definire.

• I conservatori favoriscono un approccio deciso al problema del terrorismo e si preoccupano silenziosamente delle debolezze manifestatesi durante il secondo mandato di George Bush. La maggioranza degli americani è tuttavia scettica riguardo all’azione militare. Tra il 2002 e il 2006, la percentuale di americani convinti che l’azione militare possa ridurre il pericolo del terrorismo è scesa di 16 punti, dal 48 al 32 per cento.

• I conservatori hanno sostenuto risolutamente la coraggiosa posizione del Presidente Bush contraria agli stanziamenti federali per la ricerca sulle cellule staminali che uccide gli embrioni. Ciò nonostante, una consistente parte degli americani intervistati si oppone alla decisione del Presidente, persino nei casi in cui la domanda del sondaggio spiega chiaramente che la ricerca distrugge una potenziale vita umana.

• Numerosi conservatori costituzionalisti si dichiarano scontenti dalla decisione del Presidente Bush di sottoscrivere la riforma McCain-Feingold per i finanziamenti in campagna elettorale, nonostante l’opinione espressa in precedenza dallo stesso Presidente valutasse tale provvedimento una violazione della Costituzione. Un numero esiguo di americani -al di sotto del 10 per cento-  si interessa seriamente alla riforma dei finanziamenti elettorali; dunque un veto con tutta probabilità non avrebbe avuto costi politici rilevanti. D’altro canto, la riforma caldeggiata dai conservatori -aumentare il tetto dei contributi alle campagne, fintanto che la fonte dei finanziamenti sia mantenuta pubblica- è vista con ostilità da più del 75 per cento degli americani.

Su temi quali la previdenza sociale, il sistema sanitario e la tutela dell’ambiente i conservatori assumono sempre più spesso posizioni impopolari riguardo agli argomenti di più scottante attualità. Ciò non significa che i conservatori abbiano torto. Significa però con tutta probabilità che continueremo a perdere, se seguitiamo a riproporre le vecchie formule senza adattarle ai tempi che cambiano.

L’ultimo dei politici del New Deal, il portavoce alla Camera Tip O’Neill, era solito lagnarsi amaramente dell’ingratitudine dell’elettorato. I Democratici, sosteneva O’Neill, avevano creato il ceto medio statunitense -ed ora questo votava Repubblicano. O’Neill non sembrò considerare mai che una nazione con un fiorente ceto medio necessitava, o piuttosto voleva, politiche differenti da quelle che avevano caratterizzato la società della Grande Depressione all’interno della quale esso era sorto. A giudizio di O’Neill, quello che nel 1937 era stato ottimale sarebbe andato altrettanto bene nel 1977. Forse noi conservatori e Repubblicani stiamo ripetendo lo stesso errore.

Nei dibattiti tra i Repubblicani del 2007, vediamo un candidato dopo l’altro invocare il nome e la memoria di Ronald Reagan. Avrei voluto un candidato che dicesse: Ronald Reagan era un uomo in gamba, ed un grande Presidente. Ciò che lo rendeva grande era la sua capacità di rispondere alle esigenze della sua epoca. Noi dobbiamo fare lo stesso nella nostra.

Quando Ronald Reagan si candidò alla Presidenza contro Gerald Ford nel 1976, il governo federale stabiliva il prezzo del petrolio e dei gas naturali. Controllava le tariffe aeree, il trasporto su gomma e gli orari dei treni. Stabiliva il tasso di interesse sui checking accounts e le tariffe applicate dagli agenti di borsa. Aveva appena legalizzato la proprietà privata dell’oro. Decideva chi poteva -e chi non poteva- trasmettere per radio e in televisione, e monitorava attentamente la forma e il contenuto delle informazioni che venivano diffuse. I giudici federali gestivano i distretti scolastici e spedivano bambini per ogni dove, cercando l’equilibrio razziale in nome del busing.

Tra il 1968 e il 1980, il tasso marginale dell’imposta sul reddito di una tipica famiglia di quattro persone appartenente al ceto medio quasi raddoppiò, anche quando il tenore di vita della stessa famiglia non migliorava affatto o persino calava. In un clima simile, le promesse di Reagan di riportare la libertà limitando i poteri del governo risuonavano forti.

Tra il 1968 ed il 1980, gli Stati Uniti soffrirono una serie di gravi sconfitte geopolitiche. Perdemmo la guerra in Indocina e fummo vittima del boicottaggio del petrolio da parte dell’OPEC. Gruppi insurrezionisti appoggiati dall’Unione Sovietica presero il potere in America Centrale. L’alleato americano più importante nel Golfo di Persia, lo Scià d’Iran, fu deposto con la rivoluzione. L’arsenale nucleare sovietico rivaleggiava e in alcuni casi superava quello degli Stati Uniti, e movimenti terroristici finanziati dai sovietici avevano dichiarato guerra ai governi di Italia, Germania dell’Ovest, Israele e Regno Unito. Nel 1979, le truppe sovietiche invasero l’Afghanistan, il primo schieramento militare da parte dell’Unione Sovietica che sconfinava al di fuori della zona di influenza tollerata dagli Stati Uniti dai tempi della crisi di Cuba.

Di fronte a tali minacce, la forza e l’ottimismo di Reagan seppero far fronte alle sfide del suo tempo. Ma cosa accade oggi?

Se c’è una cosa che a George Bush non manca, questa è l’ottimismo. Ha puntato la sua Presidenza su un susseguirsi di scenari altamente favorevoli, tra i quali spicca la scommessa di pacificare l’Iraq utilizzando la metà delle truppe richieste dal Pentagono. All’America non manca neppure la forza: l’unica superpotenza mondiale non è mai stata così grande. Il dubbio che attanaglia gli americani è tuttavia che la forza della nazione venga utilizzata in maniera intelligente. Gli americani non vogliono più muscoli, ma più cervello, dalla loro futura Amministrazione.

E mentre molte delle difficoltà più pressanti per il paese in ambito nazionale possono essere imputate al governo -la questione della copertura assicurativa sanitaria è aggravata tragicamente da perversi incentivi fiscali-, pochi di questi problemi possono essere risolti dai tagli alle tasse e da liberalizzazioni in stile reaganiano. Il mercato dell’energia è quasi completamente libero. E lo è anche quello dei mutui.

Più in generale, quanti americani in questi primi anni del Ventunesimo secolo sentono di avere troppa poca libertà per fare quello che vogliono fare? Quando nel 1964 Ronald Reagan mise in guardia il paese dalla società-formicaio voluta dal comunismo, parlava di qualcosa di vivido e reale: soltanto l’anno seguente, la società più popolosa del mondo sarebbe stata immerse in una “rivoluzione culturale” nella quale coloro che detenevano il potere avrebbero tentato di sopprimere l’individualità umana, abolendo i nomi propri e rimpiazzandoli con numeri. Quando Reagan, nello stesso discorso, invocava il massimo della libertà umana da realizzarsi in compresenza con l’ordine sociale, parlava di un’epoca dove l’ordine era abbondante e la libertà sembrava scarseggiare. La coscrizione obbligatoria esisteva ancora nel 1964. Oggi, l’intero pianeta è fremente e dinamico, e le preoccupazioni che i politici si trovano a fronteggiare riguardano il disordine e il caos: droghe illegali, immigrazione incontrollata e redditi evanescenti.

Se i personaggi politici Repubblicani citano Reagan, i loro consiglieri operativi studiano Nixon. Fu Richard Nixon a scoprire che la classe media statunitense disprezza le elites arroganti e permissive più di quanto non tolleri coloro che sono economicamente più abbienti di loro. I Repubblicani hanno riproposto la campagna elettorale di Nixon contro MacGovern del 1972 per più di trent’anni; tuttavia, ora che gli eccessi degli anni Sessanta sono entrati nella storia, questa strategia funziona sempre meno. A quattro decadi di distanza da Appomattox, persino il Grand Old Party di Lincoln e Grant riconosce che non può più ottenere voti agitando una camicia insanguinata. Il partito di F.D. Roosevelt ha finalmente accettato che nessuno si ricorda più di Herbert Hoover. Quante elezioni ancora possono vincere i conservatori costruendo una campagna contro Abbie Hoffman e Bobby Seale?

Gli elettori chiedono soluzioni ai problemi odierni, e sono queste le soluzioni che i conservatori di oggi devono creare e sviluppare.

C’è una storia meravigliosa degli anni Cinquanta, che narra di un ex-comunista che si trova a discutere con un giovanotto da poco infatuatosi del marxismo. L’anziano sbotta: “le tue risposte sono così vecchie che mi sono dimenticato le domande”.

Se noi conservatori e Repubblicani vogliamo tornare a vincere, dobbiamo offrire all’America qualcosa di nuovo e convincente: risposte ai problemi odierni, non ai temi che dominavano nell’epoca delle discoteche. Ronald Reagan fu eletto in un momento nel quale ogni indicatore sociale sembrava andare nella direzione sbagliata. L’ottimismo di Reagan era una ventata di aria fresca per il paese, perché tanti americani avevano perso la speranza nella loro società. Oggi gli americani si preoccupano meno della società, rispetto alle competenze ed alle capacità del proprio governo. I fallimenti di noi conservatori e Repubblicani hanno alimentato questi timori.

Nei giorni d’oro del 1994, alcuni conservatori affermavano scherzosamente che bisognava ridurre il governo a qualcosa di talmente piccolo da poter essere affogato nella vasca da bagno. Non trovarono più la cosa così divertente, dopo aver assistito alle immagini di New Orleans allagata dall’uragano. Ci sono cose che solo il governo è in grado di fare, e se noi conservatori vogliamo la fiducia degli elettori per poter essere a capo del governo, dobbiamo dimostrare che questo è importante per noi, che siamo in grado di gestirlo.

Il più pericoloso lascito di Reagan al proprio partito fu l’allegra indifferenza verso i dettagli. Nel suo caso, aveva avuto successo. Anche il mandato di John F. Kennedy aveva retto sotto gli effetti eccitanti degli antidolorifici. L’abilità di Kennedy stava nel battere tutti i pronostici, ma questo non rappresenta un modello da emulare oggi. E nemmeno quello di Reagan. Il prossimo Presidente Repubblicano dovrà prestare grande attenzione ai dettagli, dovrà valutare tutte le opzioni e decidere con cautela.

Gli americani si stanno ponendo nuove domande. I conservatori che aspirano a governare l’America farebbero meglio a trovare nuove risposte.

(Traduzione di Alia K. Nardini)

Tratto dal secondo capitolo dell’ultimo
libro di David Frum, Comeback. Conservatism That Can Win Again, in uscita il 31
gennaio 2008.

David Frum è Resident Fellow all’American
Enterprise Institute (AEI) di Washington. Editorialista della National Review
Online, è anche autore di The Right Man:
The Surprise Presidency of George W. Bush
(2003), e co-autore con Richard
Perle of An End To Evil: What’s Next in
the War on Terror
(2004).