Gli USA incalzano la Cina sui diritti umani ma la retorica non basta

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Gli USA incalzano la Cina sui diritti umani ma la retorica non basta

14 Maggio 2011

“Deplorevole”. Così il segretario di Stato Hillary Clinton ha definito la situazione dei diritti umani in Cina nel corso di una recente intervista realizzata da Jeffrey Goldberg per The Atlantic. L’amministrazione Obama ha molto parlato di diritti umani negli ultimi tempi. Il vicepresidente Joe Biden, il segretario Clinton e altri alti funzionari della Casa Bianca, incluso Michael Posner (assistente del segretario di Stato per Democrazia, diritti umani e lavoro, che dopo il vertice Usa-Cina di Pechino sui diritti umani ha rilasciato una dichiarazione assai negativa) sono stati tutti molto chiari su questo tema.

C’è qualcosa di nuovo nell’aria? All’apertura, questa settimana, del vertice Usa-Cina di Washington intitolato a “Strategia ed economia”, il segretario Clinton ha dichiarato che “sui tempi lunghi della storia … le società che procedono lungo la strada del rispetto dei diritti umani godranno di prosperità e stabilità crescenti. Avranno successo”. Nulla di molto diverso dall’approccio del presidente Bush, che sosteneva come il rispetto dei diritti umani e delle libertà politiche fosse nello stesso interesse della Cina.

Però sostenere che il termine “stabilità” riassuma i concetti di rispetto dei diritti umani e libertà politica implica una contraddizione. Quel termine suggerisce che i capi comunisti della Cina riconoscano l’opportunità di cedere il potere. Sfortunatamente, non la pensano così. Non vogliono altro che lasciare il paese nelle mani del Partito comunista cinese, e tacciano le prese di posizione americane su diritti umani e democrazia come parte di un complotto per distruggere la Cina.

Le cose dette dal segretario Clinton sulla Cina non sembrano attestare che qualcosa sia stato imparato dalla Primavera araba – che la stabilità di un regime dittatoriale è illusoria, e che appoggiare un tale tipo di stabilità è non solo immorale, ma anche controproducente. Se il popolo cinese, non meno degli arabi, ha il diritto di uscire da anni e anni di repressione, allora la retorica e le azioni americane devono accordarsi a questa aspirazione. Ma se dietro le parole non c’è niente, allora ben più del linguaggio avrà perduto vigore. Washington verrà considerata altrettanto debole delle sue parole, e la Cina e le altre dittature nel mondo si sentiranno più forti.

Che cosa si potrebbe fare?

Washington dovrebbe indire un vertice tra i ministri degli Esteri delle democrazie asiatiche ed europee, per stabilire i principi base cui aderire in funzione del sostegno della democrazia in Cina. Tra questi principi bisognerebbe includere l’aiuto agli attivisti per i diritti umani e la democrazia di Hong Kong, Tibet e Turkestan orientale, che i cinesi chiamano Xinjang.

Lobsang Sangay, appena eletto primo ministro del governo tibetano in esilio, dovrebbe essere invitato a ogni futuro vertice tra il presidente Obama e il Dalai Lama. Obama dovrebbe anche incontrare il leader uiguro in esilio Rebiya Kadeer, come già fece Bush.

L’amministrazione Obama ha messo da parte un promemoria che, in risposta alla perdurante persecuzione dei dissidenti, consigliava di introdurre restrizioni sui visti ai funzionari cinesi e ai loro familiari; però negare l’entrata negli Usa ai funzionari coinvolti nella repressione non sembra altro che una cosa ovvia.

La seduta parlamentare per la conferma di Gary Locke nel ruolo di ambasciatore a Pechino sarà per il Congresso un’opportunità per discutere la linea dell’amministrazione sulla questione diritti umani, e il modo in cui si cerca di metterla in pratica.

Che la democrazia sia un valore universale riconosciuto anche dai cinesi e non solo da un coacervo di stranieri, è stato dimostrato a più riprese dagli attivisti e dagli intellettuali di quel paese, disposti anche a farsi incarcerare in nome dei propri ideali. La democrazia è stata definita “obiettivo del popolo cinese” nella Carta 08, il documento che vanta migliaia di firme tra cui quella del Premio Nobel Liu Xiaobo, attualmente in carcere. La politica americana deve affrontare di petto la fandonia del Partito comunista cinese che dipinge la democrazia come un complotto straniero.

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