Il vice ha parlato ed è stato piuttosto chiaro. In Afghanistan è un casino e per recuperare il terreno perso a favore dei talebani moriranno molti americani. Il vice, Joe Biden, ha scelto la Cbs per annunciare al mondo il new deal obamiano sull’Afghanistan. Quest’anno gli USA schiereranno altri 30.000 soldati nel Paese. La decisione è stata presa dall’amministrazione Bush, ma il nuovo corso non ha avuto problemi a confermarla. Anzi. Per i democratici è sempre stato l’Afghanistan il vero fronte della guerra al terrorismo; il teatro dove concentrare la gran parte degli sforzi e delle risorse. E’ così adesso, mentre la guerra in Iraq, la guerra di Bush, si sta esaurendo, anche i democrats possono finalmente annunciare al mondo la loro, di guerra.
Lo stesso Obama, in piena campagna elettorale, aveva promesso di voler dare la caccia ad Al Qaeda ed ai talebani fin dentro il Pakistan, con o senza l’autorizzazione di Islamabad. E così ha fatto. Già sono due i raid condotti dai droni americani di là dal confine dopo il suo insediamento. Ma la macchina da guerra americana è in moto da tempo. Il segretario alla Difesa Gates ha già approvato il dispiegamento in Afghanistan della 82nd Combat Aviation Brigade, della 82esima Divisione aerotrasportata, entro la fine della primavera. L’unità seguirà la terza Brigata della decima Divisione da Montagna il cui dispiegamento è iniziato a gennaio. Nel complesso gli americani prevedono di schierare in Afghanistan cinque nuove brigate, per un totale di 25.000 uomini, più altri assetti, e così si arriva a 30.000. Uomini che vanno ad aggiungersi ai 31.000 – 14.000 nell’ambito di ISAF e 17.000 nell’ambito di Enduring Freedom – già impegnati nel Paese.
Nel complesso entro la fine di quest’anno dovrebbero essere quasi 100.000 i militari di ISAF ed Enduring Freedom in Afghanistan. Numeri che ricordano molto quelli sovietici della prima metà degli anni Ottanta. Il 2009, scongiuri o no, sarà pertanto l’anno dell’Afghanistan. E non si muovono solo gli americani. Gli inglesi hanno annunciato l’invio di nuove truppe ed elicotteri nella provincia di Hellmand. A luglio chiuderanno il capitolo Iraq ed una parte del personale e degli equipaggiamenti non tornerà neanche in Patria, ma verrà rispedita direttamente in Afghanistan.
Anche l’Italia farà la sua parte ed aumenterà il proprio contingente a 2.700 unità entro giugno. A Farah da tempo si lavora alla costruzione di una nuova base che dovrà ospitare un secondo battaglione di manovra, in aggiunta a quello che già opera ad Herat, mentre si è deciso di aumentare anche il numero degli OMLT, i team di consiglieri che operano a fianco delle forze afgane. Altrettanta disponibilità è venuta da Polonia e da altri membri minori di ISAF. I francesi, dopo le entusiastiche aperture sarkoziane, sembrano invece tornati al loro tradizionale ruolo di partner NATO a singhiozzo. La brutta botta presa la scorsa estate – quando dieci parà furono uccisi in scontri con i talebani – ha raffreddato i facili entusiasmi atlantici dei coniugi Bruni. Occorre prudenza. Prudenza che non manca del resto neanche ai tedeschi, che, oltre a coltivare svogliatamente l’orticello di Mazar e- Sharif, non ne vogliono sapere.
Come al solito, dunque, l’impegno del surge ricadrà sulle spalle di americani e inglesi. Nulla di nuovo sotto il sole. Bisognerà vedere se basterà. Negli ultimi tre anni la situazione in Afghanistan è peggiorata drasticamente. I talebani e alleati hanno ripreso porzioni importanti di territorio e si sono mostrati forti anche in aree fuori da quelle di tradizionale insediamento. Persino nella stessa capitale Kabul, gli attentati sono in costante aumento. L’attivismo della guerriglia si deve a tanti fattori – alcuni dei quali esterni allo stesso contesto afgano – ma ha trovato un terreno fertile anche nella strategia dell’Occidente. In un impegno militare che non ha rispettato neanche uno dei principi base la cui applicazione è (sarebbe) necessaria per sconfiggere le guerre di guerriglia.
Da questo punto di vista sono stati combinati dei veri e propri disastri. A monte, per prima cosa, manca l’unità di comando. In Afghanistan operano due missioni, ISAF ed Enduring Freedom, con mandati diversi. Nell’ambito di ISAF, poi, ogni Paese ha una sua politica sostanziata in caveat nazionali che limitano fortemente l’impiego di forze ed assetti. E poi c’è il Governo Karzai che negli ultimi tempi non perde occasione per rimarcare la sua autonomia da NATO e americani. Ognuno va per conto suo. Tradotto in termini operativi: quattro linee di comando. Una pacchia per i talebani che hanno buon gioco ad inserirsi tale macchia di leopardo. A questo fattore bisogna aggiungere la logistica. Quello afgano è un teatro proibitivo da rifornire e da supportare. Lo sappiamo. Tutti gli eserciti che hanno provato a conquistare l’Afghanistan se ne sono accorti a loro spese. Come si dice, in Afghanistan prima che per il nemico, si muore di fame. Ma, finora, per limitare questo problema è stato fatto poco.
Solo adesso, con il giro del generale Petraeus in Asia Centrale, qualcosa sta cambiando e si sta seriamente pensando di trovare delle vie di supporto logistico alternative a quella Karachi/Kyber Pass, continuamente interrotta per via degli attacchi dei talebani e dei loro amici in Pakistan. Petraeus ha annunciato degli accordi, ma ancora le carte non sono state mostrate pubblicamente e non è chiaro ciò che il generale ha portato a casa.
La Russia, per bocca del rappresentante permanente presso la sede dell’Alleanza a Bruxelles, Dmitri Rogosin, si è detta disponibile a consentire il transito sul suo territorio a convogli NATO, ma solo per merci non militari. Probabilmente, se invece di provocare Mosca con le sgangherate iniziative di allargamento ad est e con l’improbabile scudo antimissile, si fosse adottato un approccio più realistico, l’atteggiamento russo sulla questione oggi sarebbe diverso. Anche perché non rientra propriamente nell’interesse di Mosca avere un permanente focolaio islamista sull’Amu Daria. Si può allora recuperare il terreno. Obama deve ripartire da qui. Va bene raddoppiare il numero di soldati, vanno bene nuove risorse. Ma alcune cose sono da rivedere radicalmente ed occorre una strategia. Che finora non c’è mai stata.