Gli Usa preparano il ‘surge’ afgano, l’Europa si divide
08 Febbraio 2008
L’approssimarsi della probabile offensiva di primavera della guerriglia talebana ripropone – come nel 2007 – il dibattito tra Usa e alleati sulla misura del contributo militare da fornire in Afghanistan alla International Security Assistance Force (Isaf). La delicatezza del momento è amplificata anche dalla sempre maggiore estensione delle operazioni militari alle Aree Tribali del Pakistan, che corrono lungo il confine sud-orientale afghano.
L’esigenza di prestare una maggiore attenzione a quanto sta accadendo in Pakistan è stata evidenziata dal direttore Usa dell’Intelligence Mike McConnell, in una audizione al Senate Intelligence Committee del Congresso, tenutasi il 5 febbraio. In quell’occasione, McConnell ha parlato di una rinnovata capacità operativa di al-Qaeda nelle province occidentali del Paese, che accresce la preoccupazione per la messa in sicurezza dell’arsenale nucleare di Islamabad. Il rapporto di McConnell alimenterà certamente le critiche di quanti hanno accusato l’amministrazione Bush di aver erroneamente distolto uomini e risorse dalla caccia a Osama Bin Laden e alla sua rete terroristica in Afghanistan e Pakistan per dirottarle nella controversa campagna irachena.
Il prossimo mese, gli Stati Uniti invieranno in Afghanistan 3.200 unità aggiuntive, di cui 1.000 saranno accorpate in Enduring Freedom (sotto comando esclusivo americano), mentre il resto saranno destinate a rinforzare il contingente dell’Isaf (del quale è responsabile la Nato). Queste forze copriranno un solo turno di sette mesi, operando nella sezione meridionale del Paese. Un ulteriore ampliamento del contingente americano lungo la frontiera afghano-pakistana, dipenderà da alcune variabili, come il risultato delle presidenziali americane (sebbene tutti i candidati rimasti in gara, nelle loro dichiarazioni, si siano espressi generalmente in tal senso) e l’evolversi della situazione sul terreno in Iraq.
Quanti ora invocano la ‘surge’ Usa in Afghanistan confidano sul fatto che nei prossimi mesi il contingente americano in Iraq subirà una riduzione di circa 25.000 unità, grazie al buon esito della controffensiva contro l’insorgenza irachena guidata negli ultimi mesi dal generale David Petraeus. Qualche dubbio in argomento è lecito però nutrirlo. George W. Bush potrebbe passare l’incombenza al suo successore se le condizioni di sicurezza a Baghdad dovessero conoscere una nuova recrudescenza (come pare, dopo l’ultimo sanguinoso attentato). Una chiara valutazione delle opzioni militari future degli Stati Uniti dovrà tenere conto anche dell’andamento della campagna lanciata in questi giorni per il controllo di Mosul (e in generale della provincia di Ninive), oltre che della situazione nel Kurdistan iracheno, nel caso in cui questa regione dovesse precipitare in una spirale di instabilità a causa delle operazioni militari turche contro i ribelli del Pkk e del referendum sullo status di Kirkuk.
Sebbene gli Usa non abbiano ancora ottenuto un formale assenso dal governo pakistano a operare con unità terrestri all’interno del suo territorio, risulterebbe difficile non scorgere la mano americana nella presunta uccisione di Abu Laith al-Libi (un importante comandante di al-Qaeda in Afghanistan), che sarebbe avvenuta a fine gennaio nella provincia pakistana del Nord Waziristan. La nota dolente è che sarà impossibile per Washington impegnare contemporaneamente più truppe in Pakistan e in Afghanistan se altri Paesi impegnati nella missione Isaf non aumenteranno il proprio contributo, a meno di non lasciare sguarnito il fronte meridionale afghano.
Al momento le uniche forze Nato operative nelle province dell’Afghanistan meridionale insieme a quelle degli Usa sono quelle di Gran Bretagna, Canada e Olanda. Le recenti accuse rivolte dal segretario alla Difesa americano Gates alle forze militari di questi tre Paesi di non essere preparate ad affrontare operazioni di counterinsurgency ma solo ‘Fulda Gap’ (retaggio della guerra fredda), hanno avuto l’effetto di irrigidirne le posizioni.
Le parole pronunciate dal segretario alla Difesa Usa hanno tradito poca cautela diplomatica, anche se da un punto di vista strettamente tecnico nascondono un fondo di verità. A detta di diversi esperti militari americani, da quando Isaf ha assunto la responsabilità delle operazioni in tutto l’Afghanistan, la sicurezza nel Paese è peggiorata. Le resistenze opposte da alcuni suoi partecipanti alle richieste di un maggiore contributo nelle operazioni ‘combat’, ostacolano anche qualsiasi prospettiva di porre fine alla parallela missione Enduring Freedom. Un auspicio che giunge da più parti, in quanto ciò favorirebbe un più coerente quadro operativo, privo di sovrapposizioni ed equivoci. Il disagio americano è stato rimarcato ulteriormente il 6 febbraio dal segretario di Stato Condoleezza Rice, al termine di un incontro a Londra con il suo collega britannico David Miliband: “E’ necessario che i nostri popoli capiscano che quella in Afghanistan non è una missione di peacekeeping, ma di counterinsurgency”.
Gran Bretagna, Canada e Olanda hanno minacciato di rivedere il proprio impegno se altri membri Nato non si assumeranno la responsabilità di combattere nelle province di Kandahar, Helmand e Uruzgan, lasciando cadere i loro caveat operativi e geografici. Il Canada ha già dichiarato che, alla scadenza del mandato (febbraio 2009), ritirerà dalla missione i suoi 2.500 uomini se non saranno accolte le sue richieste. Pensare che un panel di esperti nazionali, pochi giorni fa, ha raccomandato al governo di Ottawa di proseguire la missione oltre questa data, ossia fino a quando l’Esercito afghano non riuscirà a gestire la sicurezza in tutto il Paese.
La Gran Bretagna procederà a una rotazione dei suoi 7.700 uomini senza prevedere alcun aumento, al massimo invierà altri elicotteri. Lo stesso Miliband, durante l’incontro con la Rice, ha dichiarato che per la natura della missione 7.700 soldati sono per Londra il livello ottimo. Nelle decisioni britanniche pesano anche gli attriti con il governo Karzai, che ha recentemente criticato l’operato delle truppe di Sua Maestà nella provincia di Helmand e ha espresso parere contrario alla nomina di Lord Paddy Ashdown a rappresentante speciale dell’Onu nel Paese.
Sulla stessa lunghezza d’onda anglo-canadese si inserisce l’Australia, che è un membro non-Nato dell’Isaf. Già lo scorso dicembre, il premier australiano Kevin Rudd ha ricordato che le 5.500 unità australiane impegnate ora in Iraq saranno da lì ritirate entro l’estate, ma saranno dispiegate in Afghanistan solo se gli altri Paesi alleati contribuiranno maggiormente alle operazioni di combattimento.
Gates spera di convincere gli alleati a coprire un vuoto di circa 4.000 uomini, ma le prospettive non sono tuttavia molto incoraggianti. Al meeting dei ministri della Difesa Nato di Vilnius, che si sta svolgendo in questi giorni, non si è andati oltre una generica dichiarazione d’intenti e sarà difficile che durante il vertice di Bucarest – fissato per l’aprile prossimo – si riesca a dirimere la controversia. La Germania ha già respinto le pressioni americane, chiarendo che l’aumento delle sue truppe approvato in questi giorni (3.500 uomini) è legato alle sole attività di ricostruzione nel nord Afghanistan: non ci saranno soldati tedeschi che combatteranno nel sud. La Francia vuole vincolare ogni maggior impegno solo all’addestramento delle forze di sicurezza locali. Sarà difficile, poi, per qualsiasi futuro governo italiano modificare gli attuali caveat. Basta osservare cosa %C3