
Globalizzazione, il mito di Babele secondo Salvatore Santangelo

23 Novembre 2019
Dottor Santangelo, lei utilizza il racconto biblico di Babel per spiegare la situazione odierna. Ci approfondirebbe i perché di questa scelta?
Il mito di Babele è certamente uno dei più noti. Universale. Contiene in sé l’aspirazione dell’umanità alla cooperazione, all’unità, alla convivenza pacifica. E allo stesso tempo il pericolo insito in ogni impresa titanica, nella tecnica. La hybris viene punita. Dalla divinità, dal divino che condanna gli uomini all’incomunicabilità, alla prigione dell’identità, del tribalismo che conducono inesorabili al conflitto, alla divisione, alla segregazione. Ci troviamo di fronte a un “mito fondativo” molto dissimile – per esempio – da quello di Esiodo, nel quale gli uomini sono creati diversi perché appartenenti a stirpi diverse: gli uomini hanno valore perché radicati in un Genos; tutti gli altri sono come sassi gettati nel mondo da bambini che giocano. Ma il titolo è anche un omaggio al regista messicano Alejandro Iñárritu che chiude la sua Trilogia sulla morte proprio con Babel (i capitoli precedenti sono Amores perros e 21 grammi – tutti tratti dai romanzi di Guillermo Arriaga), in cui cerca di rappresentare plasticamente il dolore, la riflessione sulla condizione umana e l’impossibilità di comunicare (da qui il riferimento al titolo biblico), resi con una costruzione a incastri che ci descrive tre diverse atmosfere che prendono forma su tre Continenti. Destini sospesi su confini culturali, psicologici e geografici. La sceneggiatura porta sullo schermo la storia di quattro famiglie – una marocchina, una statunitense, una messicana e una giapponese – apparentemente diverse e distanti, che si ritroveranno unite. Una potente metafora della globalizzazione: legami deboli, effetti potenti.
Come legge, in riferimento alle tesi del suo libro, le vicende del Vicino Oriente e in particolare la Guerra siriana?
Per comprendere i problemi dovremmo a volte imparare da certi animali, come determinate specie di uccelli che cercano di mettersi al sicuro ponendosi nell’occhio del ciclone. Nemesi storica dei nostri giorni, la stagione delle Primavere arabe – intesa come affermazione pacifica della dimensione politica dell’Islam sunnita “moderato” tramite le diverse diramazioni nazionali del movimento dei Fratelli musulmani – appare giunta a conclusioni deludenti, ben lontane da quei propositi di democratizzazione che, almeno nella narrazione dominante dei Media occidentali, ne avevano accompagnato gli esordi. Un percorso che avrebbe preso il via dopo il famoso discorso di Obama al Cairo, interpretato come la chiusura della stagione della Guerra al terrorismo e al via libera alla sostituzione dei regimi laici e corrotti con l’Islam politico. In termini strategici abbiamo assistito al fallimento di questo grande disegno geopolitico, caldeggiato in primis dal Qatar (e solo in parte dall’Arabia Saudita), volto a rimodellare il profilo del Medio Oriente in funzione anti-iraniana. Sperimentato con successo in Tunisia, riproposto su più larga scala in Egitto, il protocollo rivoluzionario ha incontrato in Siria, primo alleato della Repubblica Islamica, una decisiva battuta d’arresto. Non solo lo stallo in Siria, ma anche la rivolta – seppur abortita – di Ghezi Park nella Turchia di Erdogan (altro grande sponsor dei Fratelli musulmani), la restaurazione militare al Cairo ai danni del presidente Mohamed Morsi, la fragilità dello scenario politico-istituzionale tunisino, sono tutti segnali evidenti del reflusso dell’influenza politica della grande Confraternita sunnita (a ciò si aggiungano l’aperta rivolta sciita nello Yemen, e quella potenziale nel Bahrein). In termini umanitari, a conti fatti, i risultati di questa parabola insurrezionale – votata al rovesciamento di decennali e corrotti regimi autocratici – si sintetizzano in un corollario di guerre civili, esecuzioni sommarie, conflitti internazionali, crimini contro l’umanità, odi settari e colpi di Stato da cui è emerso un panorama di desolante devastazione umana e socio-economica. Piuttosto che il preludio all’affermazione di inediti modelli di statualità islamica, il ciclone rivoluzionario che si è abbattuto sul Maghreb e sul Mashreq sta assumendo le sembianze di una fase di destabilizzazione, interna ed esterna, dagli esiti imprevedibili. Ne farebbe le spese quel poco che rimane delle aspirazioni al benessere e al rinnovamento dei giovani e meno giovani scesi in piazza a partire dal gennaio 2011, ma non meno ne sarebbero coinvolte l’Europa e soprattutto l’Italia. In virtù di tale coinvolgimento diretto, e per loro stesso interesse, i Paesi della sponda nord del Mediterraneo sono chiamati ad adoperarsi per evitare che un simile scenario diventi irreversibile. E devono farlo con gli strumenti della diplomazia, dell’economia, della cooperazione e, qualora necessario, del peacekeeping. Sarebbe, tuttavia, deleterio addentrarsi nel caotico panorama mediorientale senza una propedeutica riflessione sistemica volta a chiarire sia le finalità che i limiti di una politica maggiormente assertiva, sia le aspettative sul futuro che egiziani, libici o siriani auspicano per se stessi e per i propri figli. In altri termini, gli europei – che non hanno saputo prevedere né gestire i “terremoti” della “Primavera araba” – sono oggi chiamati a comprendere davvero cosa vuole e dove sta andando il mondo arabo-musulmano che si affaccia sulle coste meridionali del Mediterraneo. Per quanto riguarda la guerra siriana essa è per definizione una guerra ibrida: conflitto civile e – allo stesso tempo – teatro di scontro tra bande e milizie, nonché conflitto settario, regionale, mondiale. Assad sopravvivendo vince, così come Russia e Iran. Arabia Saudita e Qatar – almeno fino a oggi – sono i grandi sconfitti. Lo stesso si potrebbe dire della Turchia, se non fosse che il presidente Recep Tayyip Erdoğan – con uno spregiudicato ri-orientamento della sua strategia, e rinunciando de facto al suo obiettivo, che era la caduta di Assad – si è posto tra gli attori-chiave per una futura composizione del conflitto, mediando l’avvio di un dialogo diretto tra le fazioni armate e i russi. Anche gli Usa e i Paesi europei, per i quali, sin dal 2011, Assad aveva perso legittimità a causa della repressione e avrebbe dovuto cedere il potere, sono da annoverare tra gli sconfitti. L’Iran è il Paese che ha il maggior interesse nella sopravvivenza del regime di Damasco e dello stesso Assad. La Siria è sempre stata un alleato chiave del cosiddetto “Asse della resistenza” ed è un ponte indispensabile verso Hezbollah, che per Teheran è il massimo strumento del “contenimento” anti-israeliano e anti-americano. Una sconfitta di Assad comprometterebbe l’influenza regionale iraniana.
Sul campo, oltre a numerose unità di Hezbollah, ci sono “centinaia” di consiglieri militari appartenenti alle formazione al Quds delle Guardie rivoluzionarie – guidate dal generale Qasem Suleiman – che coordinano l’arruolamento, l’addestramento e l’invio di migliaia di volontari sciiti iracheni, afghani e pakistani, nonché le attività delle Forze di difesa nazionale siriana (milizie locali fedeli a Damasco). L’Arabia Saudita ha fatto della Siria un campo di battaglia contro il mondo sciita e – nella caduta di Assad – aveva visto la possibilità di ridimensionare il peso regionale dei persiani, cresciuta a dismisura dopo la caduta di Saddam Hussein. Per anni l’Arabia saudita e il Qatar sono stati i principali sponsor dei ribelli, con una preferenza per le formazioni islamiste rispetto all’Esercito libero siriano.
La sconfitta sul campo (con l’apertura di un nuovo fronte nello Yemen alimentato sempre dall’Iran) ha portato a una profonda trasformazione al vertice del Regno saudita e a un aumento esponenziale della tensione tra Arabia e Qatar. La Turchia è il Paese delle giravolte: dopo aver provato per mesi a indurre Assad al negoziato, Erdoğan si è schierato con la ribellione, trasformando il suo Paese in un attivo partner dei gruppi armati e in un santuario logistico della resistenza: area di transito per uomini, armi e per il contrabbando di petrolio. L’escalation ha posto fine alla tregua interna con il Pkk mentre il parallelo rafforzarsi della costola siriana del Pyd (il Partito curdo dell’Unione democratica) ha scatenato un’ulteriore dinamica che sta prendendo forma sotto i nostri occhi e che guida le attuali scelte strategiche di Ankara. Le poderose rivolte popolari in Libano e Iraq sono una nuova variabile in questo scenario.
Lei si è occupato spesso di Germania: e se il futuro dell’Ue, quindi del libero mercato, fosse dipendente da un’eventuale esplosione del sistema teutonico? Se ne parla da un po’.
Il futuro dell’Europa dipende certamente dal destino della Germania ma anche dalla tenuta della Francia e del nostro Paese. Berlino è un fulcro della globalizzazione (assieme a Pechino e alla Silicon Valley) e non può non risentire delle attuali, feroci battaglie commerciali, innanzitutto quella statunitense contro il settore trainante dell’automotive. Comunque, per valutare pienamente la portata del mutamento in atto occorre tener presente che la Germania – dalla fine della Seconda Guerra Mondiale – ha cercato di raggiungere fondamentalmente due obiettivi. Il primo – considerando che dal 1871, tra Berlino e Parigi sono state combattute ben tre guerre – è stato quello di allontanare la minaccia di un nuovo conflitto, puntando a una sempre maggiore integrazione politica ed economica con il vecchio nemico. Il secondo, alimentato dagli spettri della Grande depressione, dagli orrori della guerra e dalla conseguente rinuncia al militarismo, è stata la crescita economica. Attraverso l’integrazione dei mercati europei, con la creazione di un (indissolubile) legame con la Francia e di un’area di libero scambio di ampiezza continentale, la Germania è riuscita a perseguirli entrambi; ma il delicato equilibrio di potere costruito per “contenere la Germania” ha cominciato a venir meno: non perché lo abbia voluto la Germania stessa, ma perché le circostanze sono drammaticamente cambiate. La Germania era stata, fin dagli anni Sessanta, la potenza economica trainante del Continente, dal momento in cui la sua parte occidentale (la Repubblica federale) era emersa dalle devastazioni della Seconda Guerra Mondiale. Nel 1989 il collasso del comunismo ha spinto la Germania occidentale ad affrontare una sfida titanica: assimilare i Lander impoveriti dell’ex Ddr; e ciò è stato possibile – mantenendo invariata la crescita economica a medio e lungo termine – grazie allo straordinario periodo di sviluppo che l’Eurozona ha conosciuto fino al 2008. Ma la “grande crisi” ha minato alla base la fiducia di Berlino nei confronti della Ue quale strumento in grado di generare e difendere ricchezza e benessere per i suoi cittadini (e per tutti i popoli europei). Quando il contagio della crisi finanziaria ha colpito anche l’Europa, la Germania ha sì sofferto, ma molto meno degli altri: la sua economia si è dimostrata tanto robusta da reggere allo shock, e le conseguenze sono state per lo più politiche, che hanno fatto riemergere l’antica “questione tedesca”, che stavolta si ripropone nella sua variante economica: una Germania troppo piccola per il ruolo di leader, troppo grande per preservare l’equilibrio europeo. La Germania, per riprendere un’espressione di Bismarck, è il peso massimo di un’Europa che mai resta al tappeto; e tuttavia la nazione è incapace di sostenere il ruolo politico e morale di direttore e capoclasse. La contraddizione tra l’incapacità di Berlino di esercitare una vera leadership, supportata da una chiara visione (ma allo stesso tempo un eccesso di comando esemplificato dalla pervicace e ideologica applicazione di politiche economiche pro-cicliche basate sull’austerità) e la presenza di istituzioni comunitarie sclerotizzate e farraginose hanno finito per alimentare l’attacco – sempre più virulento e contagioso – da parte di movimenti nazionalisti, antisistema, indipendentisti o antistranieri, all’idea stessa d’Europa. Dobbiamo prendere atto che sta velocemente evaporando quello spirito di solidarietà che ha caratterizzato il secondo dopoguerra.
Elezioni presidenziali americane del 2020: la storia passa da quell’appuntamento?
Il futuro del confronto tra le forze globaliste e antiglobaliste ha essenzialmente due epicentri: gli Stati Uniti e Israele. Mentre gli ultimi drammatici avvenimenti a Tel Aviv – sia in relazione alle crescenti tensioni con i vicini che alla profonda crisi istituzionale aperta con il rinvio al giudizio di Benjamin Netanyahu, primo caso nella storia del Paese – rendono difficile capire gli sviluppi immediati, ritengo che, a prescindere dal prossimo risultato elettorale negli Usa, il motore futuro delle forze che rovesceranno o riformeranno il globalismo imperiale, non può che trovarsi nel centro stesso dell’Impero. Solo da qui può provenire una sfida che non sia un semplice tornare indietro ma un suo superamento. E ciò sia per la libertà scientifica che alimenta il progresso tecnologico, ma la passione civile e democratica che la società americana coltiva nella sua parte migliore, una tensione in grado di produrre idee intelligenti, innovative e nette. La critica europea alla globalizzazione infatti rischia di fossilizzarsi su basi nostalgiche e regressive. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che gli Stati Uniti – sotto la guida di George Washington e Alexander Hamilton – nacquero contro l’Impero inglese e il suo mercantilismo imperiale, il primo mercato globale. Era la democrazia americana che si sollevava in nome del diritto di ognuno dei suoi cittadini di migliorare il proprio destino.