Governo ostaggio dei sindacati o sindacati ostaggio del Governo?
12 Settembre 2007
di Andrea Aloi
La Cgil, la più antica e rappresentativa organizzazione sindacale, con oltre 5 milioni e mezzo di associati tra lavoratori, pensionati e giovani, ha vissuto ieri un altro giorno di ordinario sbrindellamento.
Per la prima volta dal 1946, una federazione della Cgil (quella dei metalmeccanici, la Fiom, che storicamente è la più rappresentativa) ha votato contro un accordo interconfederale siglato dall’organizzazione sindacale, quello relativo all’intesa raggiunta il 23 luglio scorso tra governo e sindacati su pensioni, welfare e lavoro.
Quel che avrà fatto strabuzzare gli occhi ad Epifani e sfregare le mani all’ala radicale della sinistra (prima) di lotta e (dopo, ma molto dopo) di governo, non è però la bocciatura in sé dell’accordo (ampiamente preannunciata da Cremaschi sin dal luglio scorso, che definì l’accordo «uno schifo»), ma i numeri che l’hanno decretata: 125 voti su 159 votanti, in pratica l’80% circa degli associati “duri e puri” hanno sonoramente bocciato l’operato del loro (ex?) leader Epifani.
Uno schiaffo del genere, proveniente dall’ala storicamente più rappresentativa del sindacato più rappresentativo, dovrebbe avere come logica conseguenza le dimissioni di Epifani dalla carica di Segretario Generale della Cgil, ma ormai la malattia di cui sta soffrendo la coalizione di centrosinistra, che non ha stretto un patto per governare ma un accordo per stare al potere e per far finta di agire, ha contagiato irreversibilmente anche il sindacato, che in breve tempo si è trasformato da inflessibile difensore dei diritti dei pensionati e dei pensionandi (come dimenticare gli oceanici scioperi organizzati per protestare contro la riforma Maroni) a braccio destro (o meglio, sinistro) di un governo, capace di affermare contemporaneamente tutto (la necessità di “proteggere” le pensioni e quindi di abolire la «trappola infernale inventata da Maroni», cioè il famoso “scalone”) ed il contrario di tutto (la possibilità di aumentare l’età minima per andare in pensione da 57 anni a 61 anni, uno in più di quello stabilito dalla riforma Maroni, seppure in maniera graduale).
In altre parole il ruolo del sindacato in Italia varia a seconda del colore dei governi: quando governa il centrodestra Cgil e compagni (l’unità sindacale, salvo rarissime occasioni, è stata sempre fatta salva) spiegano che il ruolo del sindacato è quello di organizzare quotidianamente campagne e mobilitazioni (ed almeno uno sciopero generale ogni sei mesi) a difesa dei sacrosanti diritti di lavoratori, pensionati e giovani; quando, invece, governa il centrosinistra il ruolo del sindacato cambia e la pagina internet della Cgil dedicata alle “campagne e mobilitazioni” rimane per anni desolatamente vuota.
Il sindacato, addirittura, riesce a inventarsi, con il governo prodi, un nuovo ruolo: quello di “notaio” dell’Unione (non ho mai capito di che, visto che si dividono su tutto, un giorno sì e l’altro pure). Ricordate quando Epifani, nel luglio scorso, di fronte al trionfo dei veti incrociati tra l’ala riformista e quella estremista dell’Unione, ebbe ad affermare con illuminante sfrontatezza: «Siamo pronti a firmare , ma l’accordo si fa solo se l’Unione è compatta»?
Accordo? L’accordo si raggiunge quando tra due soggetti (governo e sindacato) vi sono posizioni contrapposte e ciascuna delle parti è disposta a cedere qualcosa. La lunga trattativa sulle pensioni e sul welfare, al contrario, ha visto come protagonisti non già governo e sindacato, ma le due anime contrapposte che coabitano nell’Unione, riformisti ed estremisti. Ed il sindacato è rimasto letteralmente a guardare, nella speranza che i variegati abitanti dell’Unione trovassero un accordo, pronto a mettere la propria firma a protezione di una decisione assunta altrove.
La sconfitta del sindacato sta tutta nel ruolo che lo stesso ha deciso di rivestire nel corso di questa legislatura: non già quello di “controparte” capace di opporsi (quando è necessario) all’azione di governo per rendere quest’ultimo ostaggio del sindacato, bensì quello di “difensore” del governo stesso, diventando esso stesso ostaggio dell’esecutivo.