Gramsci e Turati: un confronto scomodo a sinistra

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Gramsci e Turati: un confronto scomodo a sinistra

10 Giugno 2012

Con il pensiero di Antonio Gramsci la cultura liberaldemocratica ha fatto i conti in tempi non sospetti. Nel 1947 Nicola Matteucci, dava alle stampe un volume, tratto dalla sua tesi di laurea, dove la natura illiberale della riflessione gramsciana e i suoi legami con quella di Giovanni Gentile erano messi nitidamente in luce (Antonio Gramsci e la filosofia della prassi). Alcuni anni dopo Aldo Garosci pubblicava un lungo saggio dal titolo eloquente: Totalitarismo e storicismo nel pensiero di Antonio Gramsci, adoperando un termine, quello di totalitarismo, particolarmente inviso alla cultura marxista perché sottolineava i punti di contatto tra fascismo e comunismo. Si tratta di interpretazioni che ancora oggi mantengono una piena vitalità, centrando la sostanza del pensiero dell’uomo politico sardo.

A sinistra, invece, Gramsci è rimasto a lungo un totem inscalfibile. Questo per due ragioni. In primo luogo perché i lunghi anni di prigione sofferti con il fascismo ne hanno fatto un martire della libertà, al di là della valenza delle sue idee politiche. In secondo luogo perché, nel lungo dopoguerra, la linea politica del Partito comunista italiano è stata calibrata e messa a punto da Togliatti a partire dalla nozioni gramsciane di egemonia e blocco storico. Una concezione che teorizzava una presa del potere attraverso la conquista del senso comune e l’indottrinamento capillare della società.

Tramontata questa prospettiva politica, l’interesse per Gramsci si è da noi alquanto affievolito; tuttavia si è avuta una fioritura di studi all’estero. Le sue riflessioni sulle classi subalterne hanno ispirato la storiografia anticoloniale indiana; in Francia è stato letto alla luce dallo strutturalismo postalthusseriano e decostruzionista; nei campus americani il pensiero gramsciano gode di una notevole considerazione. Tale interesse è stato accolto con soddisfazione anche dai gramsciologhi italiani che hanno potuto presentare il loro autore come una classico del pensiero politico novecentesco, e farne quasi un teorico della democrazia.

A riportare la figura Gramsci alla discussione politica è giunto ora un libro di Alessandro Orsini che ha riaperto il dibattito a sinistra. Fin dal titolo, infatti (Gramsci e Turati. Le due sinistre, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, pp. 147, € 12,00), il volume vuole proporre un confronto tra due diverse concezioni del mondo: quella comunista e quella del socialismo moderato. I due autori presi in esame incarnano rispettivamente: una cultura riformista che ripudia la violenza, che crede nel dissenso e nel rispetto dell’avversario, e una cultura rivoluzionaria che è convinta di possedere la verità e che quella verità è pronta ad imporre con la violenza e anche l’eliminazione fisica dell’avversario.

Costruito soprattutto con citazioni da brani di interventi congressuali, discorsi, e articoli di giornale, il libro risulta convincente nel suo impianto di fondo. I due autori presi in esame, infatti, si muovono sulla base di parametri assiologici divergenti e del tutto incompatibili. In particolare, risulta evidente che Gramsci era convinto che il comunismo fosse la soluzione ai problemi dell’umanità e che la teoria marxista-leninista contenesse la risposta a tutte le difficoltà del presente e del futuro. Rispetto a una posta in gioco così allettante, non si poteva, e non si doveva, a suo avviso, essere tolleranti ma occorreva procedere con decisione verso l’obiettivo finale.

Ad Orsini si potrebbe forse osservare che la sua analisi privilegia gli scritti degli anni della guerra e del biennio rosso e non prende particolarmente in esame i quaderni dal carcere che, com’è noto, contengono la più avanzata sistemazione del pensiero gramsciano. Tuttavia una simile osservazione non risulta del tutto pertinente. L’orizzonte del pensiero di Gramsci resta saldamente ancorato all’impostazione leninista, entro cui si iscrive anche la nazione di egemonia. Questa deve sì produrre il consenso al partito, ma come un’acquiescenza irriflessa e non come un’adesione empiricamente orientata e sempre revocabile.

Certo, alcune asperità verbali contenute negli interventi giornalistici si possono spiegare in parte con la foga polemica e possono essere prese con il beneficio d’inventario. Tuttavia l’avversione per i riformisti, il disprezzo per l’approccio gradualista e contrario alla violenza di Turati è un elemento costitutivo non solo del pensiero gramsciano, ma di tutto il comunismo terzinternazionalista. Ila riflessione di Gramsci merita certamente un’attenta considerazione, perché presenta una versione del marxismo molto attenta agli equilibri culturali, ma è lontana mille miglia non diciamo dal liberalismo, ma anche dalla tradizione democratica. Il libro di Orsini ha il non piccolo merito di ricordarcelo.