Grandi manovre sulla Corte per bocciare i referendum

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Grandi manovre sulla Corte per bocciare i referendum

18 Dicembre 2007

“Cambia il vento alla Consulta, ora il referendum è a rischio, dubbi, cavilli e ‘pressioni’: spunta un escamotage per rinviare il voto”; “Triangolo contro il referendum, D’Alema e Prodi insieme per frenare la consultazione, Caldarola: anche il Quirinale non ne è convinto”. Sono i titoli e i sottotitoli di due articoli a firma di Federico Geremicca e Augusto Minzolini pubblicati da La Stampa il 14 e il 15 dicembre. Ai quali si aggiungono le affermazioni di Salvatore Vassallo contenute nell’articolo “Le contraddizioni del ‘partito tedesco’”, pubblicato dal Corriere della Sera del 17 dicembre, con le quali l’autore dell’omonima proposta di riforma elettorale esprime la speranza che “i Dioscuri del partito tedesco la smettano di fare pressioni politiche indebite sulla più sacra delle istituzioni della nostra Repubblica”.   

Titoli e affermazioni inquietanti. Fino a pochi giorni fa sostanzialmente tutti gli osservatori e i commentatori politici davano per scontata l’ammissibilità dei referendum, in particolare dei due quesiti più importanti (in base ai quali il premio di maggioranza sarebbe attribuito alla lista anziché alla coalizione più votata). Sembrava del tutto dissolta anche la polemica sorta a seguito delle dimissioni dalla Corte del giudice Vaccarella (30 aprile u.s.), motivate proprio dalla mancanza di smentite da parte del governo delle voci di interferenze e pressioni sulla Corte sui referendum (riferite da un articolo del Corriere della Sera a firma di Francesco Verderami).

Ora non sembra più così. L’ammissibilità, data per scontata, è invece divenuta a rischio. Cosa è successo, dunque, nelle ultime settimane per determinare questo cambiamento?

Prima di rispondere a questa domanda, esaminiamo, sia pure a grandi linee, la questione dell’ammissibilità giuridico-costituzionale dei referendum. Comprenderemo più facilmente sia perché finora era dato per scontato il giudizio favorevole della Corte, sia le ragioni del tutto politiche che hanno determinato il cambiamento di previsioni.

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Sulla base della giurisprudenza della Corte Costituzionale, i referendum che propongono l’abrogazione parziale della legge elettorale vigente (in particolare i due quesiti più importanti relativi a Camera e Senato che aboliscono ogni riferimento alle coalizioni e attribuiscono il premio alla lista più votata) non presentano alcun profilo di inammissibilità. Attraverso numerose sentenze, la Corte ha infatti codificato una serie di criteri riguardanti specificatamente i referendum sulle leggi elettorali (una sorta di “statuto peculiare”) ai quali i promotori si sono rigorosamente attenuti. I criteri fondamentali stabiliti dalla Corte, cioè l’autoapplicabilità della  normativa di risulta (per consentire in qualsiasi momento il rinnovo dell’organo rappresentativo) e le esigenze di chiarezza, univocità ed omogeneità della domanda referendaria, sono pienamente rispettati. Inoltre, l’abrogazione referendaria non determina la sostituzione della disciplina vigente con un’altra assolutamente diversa ed estranea, ma si poggia su una base normativa esistente (l’attribuzione del premio alla lista più votata) dilatandone al massimo la portata (analogamente ai referendum elettorali del 1999  e del 1993, ed anzi in misura molto più contenuta di quest’ultimo). I nuovi referendum infatti si propongono solo di rimuovere quelle parti della legge vigente che limitano l’effetto maggioritario del sistema politico attribuendo il premio di maggioranza alla coalizione anziché alla lista più votata.      

Sono state sollevate anche altre obiezioni. In particolare quella della incoerenza della normativa di risulta rispetto alle intenzioni dei promotori in quanto i referendum mirerebbero a creare una dinamica sostanzialmente bipartitica ma mon riuscirebbero ad impedire che i rassemblement imposti dalla legge si scompongano dopo il voto in più segmenti. E così pure l’obiezione della irragionevolezza della normativa di risulta che, attribuendo un premio fino al 55% dei seggi ad una lista che abbia ottenuto, ad esempio, solo il 25-30% dei voti (argomento che però riguarda anche la legge vigente con riferimento alla coalizione più votata), produrrebbe effetti eccessivamente distorsivi del principio pluralistico. Si tratta di obiezioni che hanno certamente significatività sul piano politico-istituzionale (la prima con maggior fondamento rispetto alla seconda) ma non possono essere mascherate e tradursi in ragioni giuridico-costituzionali d’inammissibilità dei quesiti referendari. Anche in tal caso soccorre la stessa giurisprudenza della Corte che ha tra l’altro escluso (in particolare con le sentenze relative ai referendum sul c.d. lodo Maccanico del 2004 e sulla fecondazione assistita del 2005), che il controllo di ammissibilità dei quesiti abrogativi possa trasformarsi in un giudizio preventivo ed astratto sugli eventuali effetti incostituzionali della normativa di risulta.  Al riguardo è oltremodo significativo che molti giuristi che non condividono affatto o hanno comunque riserve sull’esito normativo dei referendum (Capotosti, Caravita, Brunelli, Pugiotto e altri) sostengano invece la piena ammissibilità dei relativi quesiti.

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Torniamo allora alla domanda formulata all’inizio. Che cosa è accaduto nelle ultime settimane per indurre molti osservatori politici a non dare più per scontata l’ammissibilità dei referendum?  Se non si tratta di ragioni giuridiche, si tratta evidentemente di ragioni politiche. Quali? E’ presto detto.

Nelle ultime settimane è iniziato nelle aule parlamentari il tentativo di riformare la legge elettorale con la presentazione del testo base da parte del relatore Bianco, presidente della Commissione affari costituzionali del Senato. Anche al di là della contesa tra sostenitori del sistema tedesco (che lascia spazio alla ricostituzione del centro) e sostenitori del “Vassallum” o di un sistema più ispirato al modello spagnolo (che si basa su due partiti, tra loro alternativi, entrambi a vocazione maggioritaria), è apparso evidente che l’approvazione di una riforma che superi davvero la frammentazione provoca l’immediata reazione dei “nanetti” del centrosinistra,  disposti a tutto pur di impedirla, anche a far cadere il governo Prodi o, al limite, a preferire il referendum  che consentirebbe loro di mantenere (sia pure in maniera più attenuata) un significativo potere di ricatto e di condizionamento. Allo stesso modo, è apparso evidente che la mancata approvazione di una riforma provoca l’immediata reazione di Rifondazione comunista, disposta a tutto pur di evitare il referendum, anche a far cadere il governo Prodi o, al limite, anche ad accettare una riforma un po’ sbilanciata verso il  Vassallum. 

Queste reazioni hanno avuto due precise conseguenze: innanzitutto, lo slittamento a gennaio del voto per decidere il testo base, poi l’inizio delle grandi manovre affinché a gennaio la Corte Costituzionale tolga le castagne dal fuoco e salvi il governo Prodi con una sentenza di inammissibilità dei referendum.  Obiettivo a cui sono interessati non solo i prodiani, ma anche i dalemiani, terrorizzati dal rischio di elezioni anticipate che i referendum comporterebbero e che consegnerebbero a Veltroni lo scettro del costituendo Partito democratico.

Le grandi manovre sulla Corte sono dunque in atto, e farebbero male, malissimo a sottovalutarle sia i promotori sia tutti coloro che ritengono che i referendum siano comunque uno strumento fondamentale per favorire l’approvazione di una buona legge elettorale in Parlamento (prima o eventualmente anche dopo lo svolgimento della consultazione referendaria). Appellarsi alla certezza del diritto e alla fondatezza delle ragioni giuridico-costituzionali dell’ammissibilità dei referendum non è affatto sufficiente nel nostro paese. Molto dipenderà dalla capacità di denunciare e portare allo scoperto le pressioni e le interferenze in atto.

Ma molto, moltissimo dipenderà dal prezzo politico che la Corte costituzionale  dovrà eventualmente pagare per una sentenza che, capovolgendo la propria stessa giurisprudenza, bocci i referendum elettorali. Se i referendum appariranno all’opinione pubblica uno strumento meramente protestatorio, incapace di condurre ad una buona riforma e capace solo di far cadere il governo gettando il paese nel caos, se insomma i referendum avranno un profilo minoritario, la Corte potrà essere piegata più facilmente ad una sentenza di inammissibilità.

Se invece i referendum appariranno, come sono, una grande occasione, forse proprio l’ultima a disposizione per riformare il sistema politico e favorire il tentativo di autoriforma, già iniziato, basato su i due maggiori partiti, così come in tutte le altre democrazie bipolari e dell’alternanza; se insomma sarà evidente all’opinione pubblica che, proprio grazie alla spinta dei referendum, è possibile giungere ad una nuova legge elettorale, prima o eventualmente anche dopo la consultazione referendaria, migliorando in Parlamento quella che scaturisce dal voto popolare, allora molto più difficilmente la Corte potrà essere indotta a seguire strade diverse da quelle che la propria stessa giurisprudenza ha chiaramente tracciato.