Grazie al capitalismo i palestinesi avranno pace e benessere

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Grazie al capitalismo i palestinesi avranno pace e benessere

21 Maggio 2010

Nonostante le loro economie siano interdipendenti e lo sviluppo finanziario sia un obiettivo che li accomuna in futuro, Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese hanno due sistemi economici che si contrappongono. L’uno ricco e talmente prospero da essere uno dei partner commerciali più importanti e influenti del mondo; l’altra, un territorio e una popolazione dal grande potenziale economico ma relegata ad un costante stato di povertà e di sottosviluppo. La causa principale? Lo sviluppo economico è stato da sempre condizionato all’esito dei negoziati di pace, mettendo in secondo piano la crescita finanziaria. E’ stato questo il tema del seminario “L’economia in Israele e nei territori dell’Autorità Nazionale Palestinese”, organizzato e promosso dall’associazione "Appuntamento a Gerusalemme" e dall’Istituto Bruno Leoni, con il patrocinio del Cnel e il sostegno della Fondazione Euromid.

Lo Stato ebraico viene definito, finanziariamente parlando, come “la nuova tigre” finanziaria e i dati lo confermano: nonostante la crisi economica internazionale abbia messo in ginocchio l’economia di grandi Paesi come gli Stati Uniti e la Germania, nel 2009 Israele non ha subito alcun contraccolpo sul Pil e per il 2010 le prospettive di crescita economica sono nell’ordine del 4%. Solo nel 2008, è stato registrato lo start up di ben 480 società, con un investimento di 2 miliardi di dollari mentre nel 2009 i nuovi deal sono stati 447 (l’Italia, invece, si è fermata a quota 79). Non a caso proprio qualche giorno fa Israele è diventato il 32esimo Paese membro dell’Ocse, l’organizzazione che comprende le economie più sviluppate del globo.

Un’economia in continua crescita e una forte presenza di fondi di venture capital hanno reso Israele un Paese che si è imposto come leader tecnologico in ogni settore dell’economia: da quello informatico (molte multinazionali, come Intel e Motorola, si basano su programmi ideati e sviluppati da società israeliane), alla Green Economy e all’industria farmaceutica. Oggi, infatti, Israele è il terzo Paese per numero di società quotate sull’indice Nasdaq, subito dopo gli Usa e la Cina. Il segreto, almeno secondo Jonathan Medved, Ceo di Vringo, è una smisurata fiducia nella libertà imprenditoriale e nella cultura del rischio. “Le nostre vite sono costantemente messe in pericolo in ogni bar, scuola o singola strada di Gerusalemme o Tel Aviv – spiega Medved –. Per questo siamo un popolo che punta nell’innovazione”. C’è poi il fattore immigrazione: “La nostra gente ha imparato a diventare un buon manager nella gestione della propria vita”, aggiunge il magnate israeliano.

Dall’altra parte c’è un’economia al collasso. Negli ultimi 10 anni la performance generale dei territori di Gaza e del West Bank è stata desolante anche se in quest’ultima, a partire dal 2008, sono apparsi alcuni importanti segnali di ripresa. Nel lungo termine, spiega Bruna Ingrao, docente di economia all’Università La Sapienza di Roma, dalla nuova Intifada del 2000, “l’economia palestinese ha pagato un prezzo molto alto per aver scelto di seguire la via del confronto radicale dopo aver rotto gli accordi di pace e aver proseguito la campagna di attacchi terroristici”. In termini numerici, in seguito al ravvivarsi del conflitto, l’occupazione è declinata fortemente a causa della perdita dei posti di lavoro offerti da Israele.

La Palestina sopravvive grazie agli aiuti economici internazionali: solo nel 2008 l’ANP ha ricevuto un sostegno dall’Europa pari a 420 milioni di euro  ma, aggiungendo quello americano, la cifra lievita fino a raggiungere il miliardo di euro. Come suggerisce Matthew Sinclair, Direttore delle ricerche avviate dalla TaxPayer’s Alliance, un think tank britannico attivo nel campo delle politiche pubbliche e fiscali, “tale somma è superiore a quanto che potrebbe essere prodotto dalla classe imprenditoriale palestinese, disincentivando ogni iniziativa per lo sviluppo economico locale”. Sinclair sostiene infatti che, per promuovere veramente la crescita in questi territori, gli aiuti internazionali devono essere razionalizzati e sottoposti a 3 principali condizioni: la trasparenza nelle scelte di investimento del controllo; l’accountability e l’impegno affinché i finanziamenti non vadano ad incoraggiare l’odio contro Israele e non finiscano per armare i terroristi.

Un obiettivo molto difficile da raggiungere senza il raggiungimento di un’intesa. Infatti, per Saab Khatib, attuale Consigliere del Ministero dell’Economia Palestinese, lo sviluppo economico non può avvenire in un territorio occupato perché, ricorda, “al di là dei buoni propositi, il conflitto è principalmente politico”. Israele è però il maggiore importatore dei prodotti palestinesi e, dopo gli Stati Uniti, il secondo mercato più importante per Israele è proprio la Palestina. Due economie amiche quindi, guidate da una politica nemica.

Da qui l’appello unanime di tutto il panel a lasciare da parte il conflitto storico e a pensare allo sviluppo economico e al benessere dei propri cittadini. Così, quando il presidente del Discovery Institute, George Gilder, durante il suo intervento chiede ai palestinesi di lasciare da parte i soliti atteggiamenti vittimistici della politica – che applicano un zero sum game secondo cui là dove uno perde, l’altro vince – e di guardare al futuro puntando sul capitalismo (“Grazie al quale tutti vincono, ma soprattutto il popolo palestinese”), dalla platea si solleva un sonoro applauso.