Grazie e arrivederci, Faraone Mubarak
22 Luglio 2010
L’Italia e l’Egitto, per certi versi, si somigliano. Gli adulti guardano con un amaro e ironico distacco alla vita del Paese, che dall’inizio degli anni Novanta ha conosciuto grandi cambiamenti dal punto di vista economico ma non altrettanti da quello politico. I giovani invece, che hanno studiato più dei loro genitori (il tasso di alfabetizzazione è cresciuto notevolente), hanno viaggiato e sono "connessi", potrebbero dar vita a un cambiamento repentino ma non è detto che questo accadrà, perché al Cairo, come in Italia, vale pur sempre il vecchio adagio del Gattopardo.
Ma il paragone fra i due Paesi finisce qui. L’Egitto è un’autocrazia guidata ininterrottamente da un uomo solo al comando, fin dai primi anni Ottanta. Il "faraone" Mubarak – al cui cospetto, per longevità politica, il Cavaliere sfigurerebbe. Mubarak ha impedito al Paese di avere un’alternanza democratica, in quanto un solo partito, il suo, controlla il parlamento. Si è sbarazzato dei suoi avversari e ancora oggi può permettersi di mettere all’angolo un candidato competitivo come El Baradei, il "boss" dell’AIEA, l’agenzia onusiana sul nucleare. L’elenco non sarebbe finito, il Presidente ha tollerato per non dire legittimato gli espropri e le persecuzioni ai danni della ricca, ma cristiana, minoranza copta. L’Egitto insomma è uno "stato di polizia", come ebbe a dire una volta l’ex segretario al Dipartimento di Stato americano Condoleeza Rice.
Ora tutti si chiedono che cosa accadrà alla civiltà più antica del mondo quando il faraone non ci sarà più. Se lo chiedono gli egiziani, se lo chiedono gli analisti internazionali. Obama non sembra interessato più di tanto alla questione, visto che la Casa Bianca non si è mai permessa di "bacchettare" Mubarak, da quando il Presidente è andato a parlare al Cairo. Mubarak potrebbe lasciare il potere nelle mani del figlio, il delfino Gamal, assicurandosi il perpetuarsi della dinastia. Potrebbe ammalarsi, qualcuno dice che già lo è, sparendo repentinamente di scena: i carri armati sono dietro l’angolo, e l’esercito garantirebbe la transizione verso nuove elezioni. Una tutela pesante per una democrazia, ma che si è rivelata spesso necessaria.
Oppure arriveranno loro, discepoli e maestri della Fratellanza Musulmana. Mubarak allora lascerà il potere con un solo grande cruccio, quello di non essere riuscito a sconfiggere gli islamici che si preparano a entrare nella vita pubblica egiziana riunendosi in un partito politico. Per adesso, la Fratellanza non può presentarsi alle elezioni, c’è una legge dello stato che vieta espressamente la costituzione di partiti su base religiosa. Ma le leggi si possono cambiare, e in ogni caso alle consultazioni elettorali del 2005 i membri della Fratellanza hanno vinto come candidati "indipendenti", formando il più forte blocco di opposizione in parlamento (circa 20 seggi nell’assemblea). Attualmente l’Egitto si prepara a un doppio round, presidenziali comprese. Saranno un test per saggiare la forza della Fratellanza sul territorio, nei collegi locali, un consenso che c’è, ed è rilevante.
Nel corso degli anni, anche per venire incontro alle richieste dell’alleato americano, Mubarak ha represso, imprigionato, si dice torturato i membri della Fratellanza. Nonostante tutto, i leader musulmani promettono di seguire la strada della "democrazia islamica" turca, il modello Erdogan, anche se non è detto che rinuncino ad altri idoli, quello della paura, per esempio, il regime di Teheran: la Fratellanza è l’ispiratrice del movimento di Hamas, ampiamente finanziato dall’Iran.
Scrive l’Economist che l’America e l’Europa dovrebbero spingere fin da adesso, per non dire costringere, l’ottantenne Mubarak a garantire il rispetto delle leggi, l’autonomia del potere giudiziario, la libertà di stampa, i diritti delle donne e dei lavoratori, un’economia meno strozzata dal monopolio statale. Solo così il ritratto del Presidente sarà un chiaroscuro, con luci e ombre, e non un quadro lugubre. Ricorderemo il padre-padrone di cui l’Egitto si è liberato con difficoltà, ma anche l’uomo che ha proseguito nella strada tracciata dagli accordi di pace sottoscritti a Camp David con Israele. L’alleato ondivago ma presente. Il Presidente di una democrazia che si potrebbe gentilmente definire bloccata, non un autocrate dal carattere violento che ha represso la libertà politica – finendo per favorire i suoi avversari.