Grexit, l’Italia e una vera governance europea
25 Maggio 2015
Dicono che dopo gli ultimi roboanti annunci fatti da Atene si sia rotto il tabù di Grexit e adesso vedremo se anche l’ennesimo strappo verrà ricucito nelle ovattate stanza della diplomazia economico-finanziaria oppure se siamo davanti a un cambio di paradigma in Europa, con tutti i rischi che questo comporta.
Gli eurofobici italiani se ne stanno in felpato silenzio, sapendo in cuor loro qual è la posta in gioco. Dopo aver dato fuoco alle polveri, il ministro delle finanze greco Varoufakis fa sapere invece che il suo governo è «pronto a realizzare un’agenda che includa tutte le riforme» chieste da Bruxelles, anche se, aggiunge, l’ostacolo resta l’austerity.
La Grecia non va abbandonata a se stessa ma ha le sue colpe. In passato ha manipolato le proprie politiche di bilancio, conserva storiche debolezze strutturali come una leva fiscale inefficiente, una spesa pubblica fuori controllo, un mercato del lavoro e pensionistico che sembra immodificabile; condizioni insostenibili sul lungo periodo ma che non possono essere rovesciate dall’oggi al domani.
Ma al di là delle responsabilità di Atene a emergere, ancora una volta, è l’incapacità europea di governare la crisi. Una crisi – quella ellenica – che se fosse stata presa in tempo avrebbe potuto essere gestita meglio e con un esborso molto minore e che invece è stata pesantemente condizionata dalla ricetta dell’austerity estrema, con i suoi obiettivi di risanamento che almeno nel caso greco non sembrano perseguibili.
«E’ come se una banca facesse credito a una impresa e poi imponesse delle condizioni che rendono impossibile all’impresa stessa di operare in modo da poter ripagare il debito,» spiega all’Occidentale il professor Giovanni Tria, presidente della Scuola Nazionale dell’Amministrazione e ordinario di Economia politica a Tor Vergata.
Quella greca è un’economia relativamente chiusa e se, con l’austerity, si toglie agio alla domanda interna l’effetto è di rendere impossibile una ripresa. «Si crea un problema di aspettative alle quali nessuno crede più,» prosegue Tria, «e il risultato è che in Grecia non arrivano investimenti ». Continuare a ripetere ‘vi prestiamo soldi ma solo a certe condizioni’, ben sapendo che queste condizioni non potranno essere rispettate, rende semplicemente Atene poco attrattiva per i capitali esteri.
«L’impatto di questa situazione sull’Europa è rischioso, crea incertezza,» sottolinea Tria, «se la politica del rigore non cambia una nuova crisi potrebbe portare all’uscita di un altro Paese dall’Eurozona». Nel toto-exit a chi toccherebbe? In lizza c’è sempre il nostro Paese? «L’Italia non può uscire dall’euro,» risponde Tria, «se no a chiudere sarebbe l’Europa».
«Le condizioni greche non sono paragonabili a quelle italiane, né in termini di bilancio, né di peso economico, come pure rispetto alla capacità e alla forza di un’economia di produrre e cogliere la ripresa». Senza l’Italia, ricorda il professore, non sarebbe nata la moneta unica e dunque «il problema dell’uscita dell’Italia non si pone se non in un assetto generale di cambiamento dell’Europa».
Il punto riguarda allora proprio l’Unione che abbiamo in mente. Tria sembra d’accordo con noi quando diciamo che in Europa c’è un gap di legittimazione democratica, «si può cedere sovranità ma un processo del genere non può avvenire in mancanza di un governo europeo». Abbiamo tante regole stabilite su base collettiva, regole vincolanti e difficili da cambiare, ma non c’è ancora un’altra sovranità, una sovranità europea, che solo uno scatto vincente della politica potrebbe dare.