Guerra, terrore, nemici e minacce: anche queste le parole di Obama
21 Gennaio 2009
Ieri sera facendo zapping tra telegiornali e talk show, tutti dedicati al giuramento di Barack Obama sono rimasto stordito davanti alla pochezza e alla ripetitività dei commenti e delle considerazioni profusi a piene mani e spesso fuori controllo. Sembrava che giornalisti e opinion makers (?) si fossero passati una parola d’ordine: il discorso di Obama era – a piacimento – uno schiaffo, una rottura, una svolta, una critica, la pietra tombale, per l’era Bush.
L’affermazione era recitata come una salmo in ogni programma, con pochissime variazioni e soprattutto senza alcuna argomentazione, senza dimostrazioni, senza che alcuno si desse pena di segnalare i passi che avrebbero giustificato una simile lettura. E non dico che non ci fossero, bastava una lettura onesta e attenta per trovarne di significativi, mentre una lettura malevola ma intelligente ne avrebbe potuto produrre a volontà.
Invece niente: il fatto che il discorso presidenziale fosse la “rottura” con Bush veniva dato per assodato, come una verità assiomatica, quasi un ritornello che ogni conduttore o commentatore doveva recitare davanti alla telecamera per darsi un tono e dire quello che ci si aspettava che dicesse. Una tristezza infinita, un vuoto d’analisi e di approfondimento davvero sconfortante, sotto ogni testata e ogni colore.
Tanto smidollato accanimento, fatto più per pigrizia e per adattarsi al senso comune che per vera convinzione (meriterebbe ben altro rispetto) mi induce a tornare sulle parole di Obama, di cui persino i nostri lettori saranno ormai saturi se non nauseati. Se non potendone più, passerete oltre, sappiate che vi capisco.
A me del discorso di Obama ha colpito subito questa frase, era nelle primissime righe e non ho potuto non notarla: “Our nation is at war against a far-reaching network of violence and hatred”, che si può facilmente tradurre: il nostro paese è in guerra con il terrorismo. Obama non aveva ancora pronunciato più di 50 parole e si era già arrivati alla bushianissima “war on terror”.
Un paio di giorni fa, sul Wall Street Journal, James Taranto si chiedeva se l’uscita di scena di Bush avrebbe posto fine all’idea stessa di “war on terror” e raccontava come il ministro degli esteri inglese, David Miliband, ne fosse certo: “la nozione di guerra al terrorismo è fuorviante sbagliata”.
Millband sarà rimasto deluso per l’immediato richiamo che Obama ha fatto alla “nazione in guerra” e così molti odiatori italiani di Bush, se qualcuno tra i tg di ieri e i giornali di oggi, glielo avesse raccontato. Tra i titoli di oggi, su quasi tutti i quotidiani, spiccano parole come pace, responsabilità, mani tese. Al massimo qualcuno ha parlato di “lotta al terrore” (Corriere); “batteremo il terrorismo” (Repubblica), ma nessuno ha osato mettere in bocca a Obama la parola “guerra”, che pure ha pronunciato tre volte durante il suo discorso.
Certo, pace, responsabilità, mani tese c’erano eccome e i giornali hanno registrato tutto questo come la riprova della rottura con Bush. Ma dire che con l’Islam occorre “trovare una nuova strada fatta di interessi reciproci e reciproco rispetto”, che è poi la regola di qualsiasi relazione internazionale, non sembra poi tanto una mano tesa e neppure una frase che Bush non avrebbe potuto pronunciare. Mentre sono certo che la frase Obamiana: “per coloro che cercheranno di raggiungere i propri scopi attraverso il terrore e massacrando innocenti, vi diciamo che il nostro spirito è più forte e non può essere battuto; non potrete sopravviverci, e vi sconfiggeremo”, Bush la sottoscriverebbe parola per parola.
Siete stati colpiti dalle parole di Obama sul fatto che la pace e la libertà non si conquistano con le sole armi e che l’America sarà al fianco dei deboli, degli oppressi e delle vittime delle dittature? Ecco cosa diceva Bush sullo stesso argomento: “So it is the policy of the United States to seek and support the growth of democratic movements and institutions in every nation and culture, with the ultimate goal of ending tyranny in our world. This is not primarily the task of arms, though we will defend ourselves and our friends by force of arms when necessary. Freedom, by its nature, must be chosen, and defended by citizens, and sustained by the rule of law and the protection of minorities. And when the soul of a nation finally speaks, the institutions that arise may reflect customs and traditions very different from our own. America will not impose our own style of government on the unwilling. Our goal instead is to help others find their own voice, attain their own freedom, and make their own way.
Certo si può dire che poi Bush abbia razzolato peggio di quanto abbia predicato, ma di Obama sinora conosciamo solo le prediche.
E avete applaudito con sollievo quando Obama ha detto che “Cominceremo con il lasciare responsabilmente l’Iraq alla sua gente, e a forgiare la pace duramente guadagnata in Afghanistan”? Ma credete onestamente che avrebbe potuto dire questa frase senza le odiate guerre di Bush?
Insomma, non voglio neppure io esagerare nell’argomentazione, e ammetto di aver volutamente tralasciato molti passaggi che avrebbero potuto essere letti, con una buone dose di onestà, come una critica a Bush. Ma davanti alla sproporzione e alla banalità delle posizioni contrarie mi sono lasciato prendere la mano. La verità è che il discorso di Obama era il suo primo da presidente e non il suo ultimo da candidato. Un quel discorso ha messo da parte promesse, speranze e anche svolte e si è misurato con la durezza del governo e le incognite del mondo, in perfetta continuità con i suoi 43 predecessori, Bush compreso.