Guerre nel Golfo, c’è anche la Cina nella partita fra Usa e Iran

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Guerre nel Golfo, c’è anche la Cina nella partita fra Usa e Iran

03 Marzo 2011

Le proteste che stanno cambiano il volto del mondo arabo per i cinesi non devono esistere. I media statali evitano di commentare la rivolta in Libia, Egitto, Tunisia, Qatar, Oman e Yemen.  Le cronache delle rivolte nordafricane e mediorentali sono stata riportate tra le notizie di secondo piano, a differenza che nel resto del mondo. Per i leader della Repubblica popolare ci sono troppe analogie con la situazione cinese e troppi collegamenti con le proteste e il massacro di piazza Tiananmen nel giugno 1989. Le televisioni controllate dal partito comunista non mostrano le immagini delle proteste di piazza, o dei carri armati per le strade. Fonti giornalistiche dicono che è stato loro “indicato” di utilizzare solo le notizie diramate dall’agenzia statale ufficiale Xinhua. Alcuni giornali si sono limitati a dire che i cinesi in Egitto, Tunisia e Libia sono rimpatriati con voli straordinari. Sui siti web cinesi sono censurate le parole “Egitto” e “Tunisia”, dopo che erano stati messi in rete articoli e immagini sulle proteste e sui carri armati per le strade, con commenti come: “Questi sono i veri soldati del popolo. L’esercito egiziano non ha aperto il fuoco contro i propri padri e fratelli”.

La Cina non è la sponda sud del Mediterraneo ma la dirigenza cinese teme comunque l’effetto contagio. Il potere del Partito Comunista cinese è solido e lo sviluppo economico ha portato milioni di persone fuori dalla povertà, a differenza del Maghreb dove ne hanno beneficiato soprattutto le classi dominanti e non la maggioranza della popolazione. Ma gli internauti cinesi la pensano in modo diverso e nei primi giorni delle proteste sono fioriti commenti sarcastici come: “Corruzione crescente, inflazione, alti prezzi per le case. Penso che c’è un altro Paese simile, ma quale potrebbe essere?”. Le paure del regime cinese non sono ingiustificate. Sebbene la Cina sia chiaramente molto diverse da Egitto, l’implosione del regime di Mubarak è un forte avvertimento delle difficoltà che tutti i governi autoritari devono affrontare nei rapporti con il mondo moderno. Il paese pullula di giovani laureati universitari disperati in quanto impossibilitati a trovare un posto di lavoro produttivo. I quotidiani ed i blog parlano di tribù di formiche di nuovi laureati che vivrebbero in seminterrati angusti nelle grandi città del paese inutilmente in cerca di lavoro. Se i funzionari cinesi non affronteranno in tempi rapidi il malcontento popolare prevenendo eventuali motivi di insoddisfazione, potrebbero trovarsi anche loro a dover gestire una rivolta molto più ampia e determinata della protesta degli studenti duramente repressa dal governo a Piazza Tienanmen.

Ma per la Cina le rivoluzione che stanno cambiando il mondo arabo dal Medio Oriente al Africa del Nord rappresentano anche una grande possibilità per stravolgere gli attuali equilibri geopolitici a proprio favore e a scapito degli Stati Uniti. Negli ultimi anni la Cina è diventata il principale partner commerciale del modo arabo, Libia compresa (ne parleremo domani), ma le grandi opportunità per la Repubblica Popolare sono più ad Est, nel Golfo Persico. Il Bahrain e l’Oman sono in fiamme. Le proteste contro i governanti locali fedeli alleati degli americani si intensificano. Il Bahrain ha un peso strategico che è difficile sottovalutare, essendo Manama il “porto di casa” della 5ª Flotta della US NAVY. La 5ª Flotta rappresenta per Washington uno degli strumenti militari fondamentali, non solo date le presenti contingenze, con i caccia che dalle portaerei nel Golfo forniscono copertura aerea ai soldati in Iraq e Afghanistan, ma soprattutto nel contesto degli equilibri regionali, che un Iran con ambizioni nucleari mira a stravolgere. Da questo punto di vista, forse anche più del Qatar, che ospita la base USAF di al-Udeid e il Comando operativo di CENTCOM, il Bahrain e la 5ª Flotta sono il principale baluardo strategico contro un Iran sempre più aggressivo, non solo per il suo controverso programma nucleare, ma anche per le reiterate minacce di blocco dello Stretto di Hormuz, la “giugulare” da cui transita il 20% del petrolio commerciato al mondo, o 40% del traffico su petroliera. L’Oman è da secoli legata economicamente alla Cina. Lo scorso dicembre A Mascate si è svolto il Comitato interministeriale Cina-Oman.

Il vertice aveva l’obiettivo di rafforzare il legami tra i due Paesi in tutti i settori di cooperazione già esistenti e di creare nuove sinergie politiche ed economiche. Se dalle rivolte dovesse emergere due governi sensibili all’influenza, e alla disponibilità finanziaria cinese Pechino si troverebbe a controllare la sponda occidentale dello Stretto di Hormuz. Per la Cina significherebbe mettere le mani su  tutta la  fascia costiera che va dal Mar Rosso fino all’Indocina per il controllo delle rotte commerciali e dell’approvvigionamento energetico. Completando quel “filo di perle” che costituisce per  Pechino un’importante rete di punti d’appoggio portuali lungo la cruciale rotta commerciale che si snoda tra il Canale di Suez e lo Stretto di Malacca, attraverso la quale transita circa il 40% del commercio globale. I porti  di Gwadar, nel Balochistan pakistano, gli scali di Hambantota nello Sri Lanka, di  Akyab, Cheduba e Bassein in Myanmar, quello di Chittagong in Bangladesh, e l’avamposto realizzato su una delle isole Coco sono un vantaggio notevole per i cinesi nella corsa al controllo delle rotte marittime. 

Garantire il flusso di idrocarburi è una questione vitale per il regime cinese. L’energia che arriva via mare da Ovest è indispensabile per sostenere la rapida crescita economica, presupposto essenziale per il mantenimento del potere da parte del Partito comunista. Se i cinesi estenderanno la propria influenza fino ad Hormuz  cadrebbe il secondo pilastro strategico su cui si base la supremazia americana (il primo è la schiacciate superiorità tecnologica e militare). Controllando lo Stretto grazie al poderoso dispiegamento militare nel Golfo, gli Usa sono attualmente in grado di bloccare l’afflusso di petrolio verso la Cina. Gli Stati Uniti devono mantenere alta la guardia e consolidare la propria influenza nel Golfo Persico per non lasciare campo libero alla Cina. Non bisogna dimenticare che sulla sponda orientale dello Stretto di Hormuz c’è proprio l’Iran. Teheran è costantemente impegnata a promuovere i suoi interessi nell’area e conduce una strisciante “guerra fredda” contro Washington. Nonostante il via libera di Pechino all’ultimo round di sanzioni Onu contro l’Iran, Pechino e Teheran intrattengono ottimi rapporti, principalmente in campo energetico. Soprattutto sono entrambe interessate a scalfire il potere americano per realizzare un mondo multipolare in cui trattare senza timori reverenziali con gli Usa. Se l’influenza della Cina si affianca a quella dell’Iran sulla coste di Hormuz gli Stati Uniti rischiano di perdere il controllo sulla più importante via di comunicazione marittima da cui dipendono i destini dell’economia globale e gli equilibri strategici mondiali.