“Günter Grass non è mai stato una vittima della Stasi e vi spiego perché”

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“Günter Grass non è mai stato una vittima della Stasi e vi spiego perché”

05 Aprile 2010

La casa editrice tedesca Ch. Links manda in libreria in questi giorni un volume contenente tutti gli atti della Stasi, il Ministero per la Sicurezza del regime comunista della DDR, riguardanti Günter Grass (Günter Grass im Visier – Die Stasi-Akte, a cura di K. Schlüter, p. 384, € 24,90). Nulla di nuovo, visto che dello scrittore di Danzica, per anni seguito nei suoi spostamenti in territorio tedesco orientale dall’”informatore non ufficiale” Karlheinz Schädlich (“Schäfer” per la Stasi), ha lungamente riferito Carsten Von Holm su “Der Spiegel” già nel dicembre 2006.

Un’operazione editoriale inutile, sembrerebbe. O meglio, utile solo a Grass (significativamente “Bolzen”, il “perno”, per gli uomini di Erich Mielke), che dalla confessione di appartenenza alle Waffen SS non perde occasione per cercare di rifarsi una verginità. Ora (vedi le numerose interviste che sta rilasciando a destra e a manca) cerca di passare per “vittima”, come “voce critica”, come scrittore “pericoloso” (all’est come all’ovest). Il suo essere stato sotto osservazione in occasione di incontri con alcuni scrittori dell’est dovrebbe aiutare a ribadire ancor oggi il suo ruolo di intellettuale socialdemocratico (fallito, viste le sconfitte della sua SPD) alla ricerca di una “terza via” tra capitalismo e comunismo sovietico. In realtà, come risulta dagli atti, erano gli stessi letterati tedesco orientali a collocare politicamente Grass “a sinistra della SPD”.

Come si può ragionevolmente pensare che sia stato davvero ritenuto un “nemico” della DDR? Tanto più che dopo anni di incontri a Berlino est, per così dire, “clandestini” (in realtà tutti ben noti alla Stasi), il 17 giugno 1987 Grass poté tenere un incontro pubblico davanti a più di 500 persone addirittura nel berlinese Palast der Republik, il palazzo del governo tedesco-orientale: la caduta del Muro era lontana (e inimmaginabile), eppure lo scrittore, come recitano gli atti, per il regime dittatoriale di Honecker “non rappresentava più un rischio per la sicurezza”. Altro che vittima. Grass si è prestato piuttosto al ruolo di “specchietto per le allodole”: ogni volta che passava la cortina verso di lui convergevano scrittori che in buona fede cercavano appigli occidentali credibili e leali. Questi in realtà, così facendo, non facevano altro che esporsi al controllo della Stasi e dunque alla sua repressione. È possibile credere che Grass non ne fosse cosciente?

In ogni caso risulta molto più interessante, oggi, la storia dell’informatore “Schäfer”, uccisosi un anno dopo la rivelazione degli atti della Stasi su Grass: aveva resistito quindici anni  all’onta dei suoi familiari (che scoprirono la sua storia nel 1992), ma riuscì a sopravvivere solo pochi mesi alla vergogna per aver spiato il “grande intellettuale”. Tra i tanti casi di personaggi pubblici spiati da propri familiari verificatisi fino al 1990, quello dello scrittore e critico del sistema Hans Joachim Schädlich, fratello di “Schäfer”, è quello più significativo e la figlia Susanne ha deciso bene di raccontarne la storia in un libro (Sempre e di nuovo dicembre. L’ovest, la Stasi, lo zio e noi, Droemer Verlag 2009).

Tutto iniziò nel 1976, quando Hans Joachim firmò una risoluzione di protesta contro la privazione della cittadinanza tedesco orientale al cantautore Wolf Biermann. Da quel momento vessazioni e ostacoli al suo lavoro da parte dello Stato, finché lo scrittore, un anno dopo, non fu costretto a lasciare la DDR insieme a moglie e figlie, per stabilirsi nella Germania Federale. Neppure lì la famiglia Schädlich fu al sicuro dalla lunga mano della Stasi. Proprio “Schäfer”, che era rimasto oltre cortina, teneva sotto “osservazione” il fratello, facendogli credere di fare il possibile per un suo ritorno nella DDR e di cercare un buon posto per la nipote Susanne a Berlino Est. L’operazione non riuscì e dopo la riunificazione tedesca, nel 1992, emerse finalmente dagli atti della Stasi il ruolo svolto dall’"informatore non ufficiale" “Schäfer”, il quale, nel dicembre 2007, senza alcun pentimento, si suicidò in un parco berlinese. A Susanne Schädlich abbiamo posto alcune domande circa questa storia, che è insieme familiare e di un intero popolo. 

Susanne Schädlich, perché si è decisa a scrivere questo libro di memorie?

Volevo dare voce a coloro che non avevano alcuna possibilità di scelta quando i loro genitori erano costretti a lasciare la DDR, a coloro che, senza alcun preavviso vennero gettati in una nuova vita, lasciando gli amici, la scuola e i parenti, e coloro i quali, a differenza degli adulti, all’ovest non avevano nessuno di riferimento. Volevo raccontare come ci si trova a vivere in due sistemi, prima nella DDR, poi nella Repubblica Federale Tedesca, dell’iniziale sentimento di estraneità provato nella Germania occidentale. Perché non era esattamente così come poteva sembrare: stessa lingua, dunque stesso paese. Poi nel 2007, quando avevo già iniziato a scrivere il libro, ci fu il suicidio di mio zio e rievocazioni sulla stampa tendenti a minimizzare. Ci fu un’inversione. Implicitamente, noi che non avremmo mai potuto scusare il suo tradimento della famiglia, venimmo accusati di averlo condotto alla morte. Pensai che era il momento di dire basta. Dovevo oppormi a quella mistificazione e minimizzazione. Dovevo raccontare chi era stato e che cosa era successo. 

Come ricorda l’espatrio della sua intera famiglia dalla DDR nella Repubblica Federale, nel 1977?

Sono stati giorni quelli che nessuno di noi dimentica. Giorni sconvolgenti, tormentati, complicati. Ma c’era anche qualcosa d’avventuroso. Dovevamo finalmente vedere con i nostri occhi ciò che conoscevamo solo per sentito dire. Personalmente ho saputo dell’espatrio solo cinque giorni prima. Da un momento all’altro dovevo prendere congedo dalla vita fatta fino ad allora, dai parenti, dagli amici. Oscillavamo tra una condizione di paralisi, perché ci si doveva arrendere all’ineluttabile, e una prudente fiducia, perché sfuggivamo a dei pericoli, avemmo sfilato la nostra testa da un cappio del quale saputo solo dopo la lettura degli atti della Stasi abbiamo saputo quanto fosse già stato stretto. Tuttavia, l’occidente ci era più estraneo di quanto avessimo immaginato. Continuo ad avere limpido davanti agli occhi il viaggio fatto con la nostra auto sgangherata, attraverso il confine tra le due Germanie. La notte era particolarmente scura, non c’era alcun segno dell’ovest rilucente. Tutti e quattro tacemmo a lungo, in macchina, perché ci stavamo inoltrando in un futuro incerto.

Che ruolo ha avuto suo zio nella Sua vita, fino al 1992?

Fino a quell’anno abbiamo avuto tutti fiducia in quell’uomo. Nessuno di noi immaginava neppure lontanamente che lui per più di un decennio aveva lavorato per la Stasi. Io gli ho voluto bene. Mi era davvero familiare ed amico, direi quasi un secondo padre. Gli feci visita spesso a Berlino Est. Incarnava quella casa che avevo perduto nel 1977.

E che cosa è diventato dopo che ha appreso del suo ruolo di “informatore non ufficiale” dei servizi per la sicurezza della DDR?

Dopo che mio padre, suo fratello, lo scoprì nel 1992 abbiamo interrotto i nostri rapporti con Karlheinz Schädlich. Molti ci hanno chiesto perché: perché lui non ha mai mostrato il minimo pentimento, non ha mai cercato il dialogo. Perché ciò che lui aveva fatto a noi a molti altri è imperdonabile. Fummo costretti, io, mio padre, mia madre e mia sorella, a strapparlo via dai nostri cuoi.

Dal 1999 Lei è tornata a vivere nella zona orientale di Berlino. Ha per Lei un significato particolare?

La cosa è successa in maniera casuale, ammesso che esista qualcosa che assomigli al caso. Quando nel 1999 tornai dagli U.S.A., potei trovare un appartamento solo nell’allora ancora lugubre “Berlino Est”. Nel frattempo mi sono convinta che abbia davvero un senso il fatto che, io, costretta ad abbandonarla nel 1977, sia tornata ad abitare qui, dove da più parti è strapotente la pressione affinché si dimentichi e si rimuova il passato. Ormai sono cresciuta, sono in grado di capire, mi immischio nelle questioni.

Che significato ha la Sua storia per la Germania riunificata di oggi?

Sono convinta che non può essere passato alcun colpo di spugna. La storia non ha mai una conclusione definitiva. Storie come la nostra devono essere raccontate, così che possano essere condivise e si continui a tenere gli occhi aperti. Ritengo che suscitare il coinvolgimento non sia la via peggiore da percorrere. In questo modo si coinvolgono le persone. Certo il mio libro racconta una parte della nostra storia familiare, dello zio, dell’”informatore non ufficiale” Schäfer. Si potrebbe pensare ad un caso isolato, assolutamente soggettivo. Tuttavia ciò che ci è capitato è qualcosa di esemplare per molti e rappresenta molto di ciò che ha caratterizzato quello Stato di ingiustizia che era la DDR. Questo non può essere dimenticato. Col mio libro spero di aver scritto qualcosa anche contro quella dimenticanza.

Suo padre era in contatto con Günter Grass. Immagino che avrà visto il volume che raccoglie i documenti prodotti dalla Stasi sullo scrittore di Danzica. Grass ha dichiarato in più occasioni di essere stato una “vittima” degli spioni orientali. Che cosa ne pensa?

Grass “vittima” della Stasi? Vittime della Stasi sono state quelle persone che dall’allora Ministero per la Sicurezza furono minacciate e pregiudicate nella loro salute, nella loro libertà. E questo non è certo avvenuto per Grass.