Hamas alza il tiro in vista di Annapolis

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Hamas alza il tiro in vista di Annapolis

15 Novembre 2007

La conferenza di
Annapolis, organizzata dagli Stati Uniti d’America per mettere la parola fine
al conflitto israelo-palestinese, si avvicina. Qualcuno parla del 26 novembre,
altri credono che si slitterà a dicembre, ma una cosa è certa: al punto in cui
siamo, la conferenza si terrà e sarà nel 2007. Olmert e Abu Mazen stanno ancora
lavorando, col supporto del segretario di Stato statunitense Condoleezza Rice,
ad un documento condiviso: le divisioni ci sono, nessuno lo nasconde. Ma da
entrambe le parti, allo stesso tempo, trapela un pacato ottimismo. Al tavolo di
Annapolis dovrebbero sedere anche alcuni stati arabi: di questo, tra le altre
questioni, hanno parlato Peres e Gul in occasione del viaggio in Turchia del
presidente israeliano. Olmert intanto, in un incontro con l’organizzazione
Yesha – che rappresenta diversi gruppi di cittadini israeliani –, ha detto
chiaramente che Israele sarà costretto a fronteggiarsi con alcune concessioni
alla controparte: su tutte, il congelamento degli insediamenti. 

Tutto bene, insomma?
Non proprio. Perché, a starci bene attenti, in tutte queste manovre c’è una
grande incognita: Hamas. L’assenza di Hamas, riconosciuta come entità
terroristica da Europa e Stati Uniti, al tavolo delle trattative (così come a
quello degli accordi preliminari) si potrebbe teoricamente interpretare come un
fattore positivo: ma i rischi legati alla sua (inevitabile) esclusione dai
negoziati non dovrebbero essere sottovalutati. Se è infatti altamente
improbabile che Fatah, Israele e gli Stati Uniti si mettano a discutere con
un’organizzazione che reputano terrorista, allo stesso tempo Hamas – che lo
scorso giugno ha preso il potere con la forza occupando la Striscia di Gaza –
rappresenta sempre di più un grande problema, tanto per la politica quanto per
la sicurezza della regione. I leader del movimento armato, evidentemente
scontenti dell’isolamento al quale sono sottoposti – tanto da parte di Fatah
quanto della comunità internazionale –, stanno infatti incrementando il tasso
di violenza contro i nemici storici: Israele, in primis, e Fatah, visto come un
partito di traditori che ha deciso di trattare con americani e sionisti.

L’offensiva violenta
di Hamas – e dei gruppi jihadisti che le gravitano attorno – contro Israele si
materializza da mesi sottoforma dei razzi Qassam. Da quando il gruppo armato ha
preso il controllo di Gaza, non c’è stato giorno in cui Israele non sia stato
preso di mira dalle rampe di lancio jihadiste. Sull’emergenza razzi, che ha
portato le popolazioni d’interi villaggi sull’orlo di uno shock, si è espresso
anche il presidente israeliano Peres in occasione del suo discorso di fronte al
parlamento turco: riferendosi al contributo della Turchia nella lotta contro gli
attacchi terroristici, il presidente ha ricordato che solo se “i razzi
saranno fermati e i prigionieri liberati, la popolazione di Gaza conoscerà la
calma”. 

Il problema non è
secondario. Ad essere costantemente nel mirino, infatti, è la sicurezza della popolazione
di villaggi come Sderot, costretta a vivere nell’incubo delle sirene e nella
preoccupazione per la sorte dei propri figli (un razzo, poco tempo fa, sfiorò
una scuola elementare portando i genitori fino alla Knesset in segno di
protesta). E il problema, in Israele, è tanto sentito da far pensare sempre più
alla possibilità di un attacco militare contro Gaza: parzialmente fallita la
pratica delle sanzioni energetiche, secondo il quotidiano arabo di base a
Londra “Al-Quds Al-Arabi” il tanto temuto attacco potrebbe avvenire
proprio dopo Annapolis, sempre che l’esito della conferenza non cambi le carte
in tavola.

Ad ulteriore conferma
dell’accresciuta aggressività di Hamas nei confronti di Israele, una
dettagliata relazione dei servizi di sicurezza egiziani citata
dall'”Associated Press” ha evidenziato come l’Egitto, negli ultimi
sei mesi, abbia portato alla luce 60 tunnel volti a facilitare l’ingresso in
Israele dei militanti islamici. Lo scopo è semplice: tornare alla vecchia
strategia del kamikaze sul suolo israeliano, molto più devastante del lancio di
razzi dalla lunga distanza.

Ma il nervosismo in
vista di Annapolis si manifesta sempre più anche nei confronti dei
“fratelli” di Fatah, già uccisi e torturati in occasione della presa
di Gaza dello scorso giugno. Il culmine della tensione si è registrato lunedì,
quando nella Striscia di Gaza sono scesi in piazza moltissimi sostenitori di
Fatah per il terzo anniversario della morte dello storico leader politico
Yasser Arafat. Nel corso della manifestazione, uomini di Hamas hanno aperto il
fuoco contro i manifestanti: risultato, sette morti e decine di feriti.  

Ma non è tutto. Il
giorno dopo Islam Shahwan, portavoce del braccio armato di Hamas, ha dichiarato
di aver arrestato oltre 50 manifestanti: “Sono quelli che hanno
pianificato e organizzato la manifestazione di ieri, e sono sospettati di
essere i responsabili del caos che ne è seguito”. Hazem Abu Shanab,
esponente di Fatah, afferma invece che Hamas avrebbe arrestato oltre 400 sostenitori
dell’ex partito di Arafat nel corso di veri e propri rastrellamenti. Il
messaggio di Hamas è chiaro: ci siamo, siamo forti e nella creazione di uno
Stato palestinese dovrete vedervela anche con noi. 

Ma i palestinesi cosa
pensano? Da quando ha preso il controllo della Striscia, tutti i sondaggi
concordano nel mettere in evidenza un deciso calo di consenso popolare nei
confronti di Hamas. E alla crescente opposizione al partito di Haniyeh, tanto
nella Striscia quanto nel West Bank, fa inoltre da contrappeso un incremento
del sostegno a Fatah e Abu Mazen: come se, in vista di Annapolis, i palestinesi
vedessero una luce di speranza nell’unico possibile interlocutore per il
“nemico” israeliano. Non è mancata, a questo proposito, la
soddisfazione dei dirigenti di Fatah un tempo operanti a Gaza %E2