Hamas così com’è non cambierà mai e poi mai
02 Settembre 2011
"Hamas potrebbe cambiare," scrive Elena nel suo commento di ieri (1 settembre, ore 15.56), "infatti nel 2009 Meshal disse che la sua organizzazione era pronta a trattare una Palestina sui confini del ’67 a patto di avere il diritto al ritorno dei rifugiati e Gerusalemme Est capitale del nuovo Stato". E’ vero che le persone nella vita cambiano, crescono, modificano il loro modo di essere e di pensare, e che questo probabilmente vale anche per i gruppi, i partiti, le organizzazioni politiche. Se guardiamo al futuro, dunque, potrebbe anche darsi che una sigla del terrorismo come Hamas (riconosciuta tale dagli Usa e dalla Unione Europea, ad eccezione del Regno Unito che fa una differenza tra il partito islamico e la sua costola armata, le Brigate Ezzedim Al Qassam) possa moderarsi o cambiare volto.
La "vecchia guardia", insomma, andrebbe progressivamente sostituita da nuovi militanti i quali, magari semplicemente per una questione di interesse, volendo preversare i privilegi acquisiti nel corso del tempo, sul lungo periodo subirebbero una evoluzione, virando verso un qualche tipo di formazione politica ispirata sì dalla sharia ma simile a quelle di altri Stati che vengono definiti democratici, come la Turchia. E’ la grande attesa ed uno dei punti dirimenti della discussione che riguarda l’Egitto post-Mubarak: i Fratelli Musulmani, che sono stati gli sponsor di Hamas, continueranno a rappresentare una minaccia per l’Egitto democratico o potrebbero "addolcirsi" dopo la Rivoluzione scoppiata in Piazza Tahrir? Le bastonate alle donne egiziane che manifestavano al Cairo durante i giorni di rabbia non promettono nulla di buono, ma se restiamo nel mondo delle ipotesi, se usiamo il condizionale, come fa Elena, in effetti tutto può accadere.
Quel che invece appare difficilmente sostenibile è la veridicità delle dichiarazioni di Meshal fatte alla stampa americana negli anni scorsi: "Hamas è pronta a cooperare con gli Stati Uniti, con ogni sforzo regionale o internazionale, teso a trovare una soluzione al conflitto con Israele, per mettere fine alla occupazione israeliana e garantire il diritto alla auto-determinazione del popolo palestinese". Non sembra che le cose vadano nella direzione evocata dal leader islamico in esilio a Damasco, per una serie di ragioni che andiamo ad elencare.
La prima, che in un certo senso unisce Hamas a Fatah, e che spiega anche come mai il processo di pace non abbia fatto sostanziali passi avanti, è che i gruppi palestinesi chiedono come presupposto per ogni trattativa con lo Stato ebraico il cosiddetto "diritto al ritorno" della diaspora palestinese e che Gerusalemme Est divenga la capitale del nuovo Stato. Mai nessun governo di Israele, né di destra, né di sinistra, ha mostrato delle aperture rispetto a questo genere di richieste, che appaiono quindi el tutto irrealistiche. In più, è proprio la dichiarazione di indipendenza unilaterale all’Onu prevista per la fine di settembre che rischia di mettere in stand-by la questione dei profughi. A questo bisogna aggiungere, ed è l’elemento più importante, che Meshal ha promesso sì una trattativa con i mediatori Usa in base alla ipotesi di un ritorno ai confini del 1967 (una prospettiva evocata del resto dallo stesso presidente americano Obama, che metterebbe gravemente a repentaglio la sicurezza israeliana), ma non ha mai riconosciuto il diritto alla esistenza dello Stato israeliano, che invece è il presupposto chiave per allargare la trattativa al governo di Gaza.
I "realisti" alla Brzezinski o alla Scowcroft possono anche raccontarci che Meshal rispetto ad altri è un moderato, che c’è una differenza tra l’ala politica e quella militare del partito islamico (l’esempio classico è quello dell’IRA), ma ricordiamoci sempre che nello Statuto di Hamas c’è scritto che lo scopo della organizzazione è la distruzione dello Stato di Israele e la sua sostituzione con uno Stato islamico a Gaza e nella Cisgiordania: "Non esiste soluzione alla questione palestinese se non nel Jihad". Dall’inizio degli anni Novanta, Hamas ha ucciso centinaia di israeliani, attraverso attacchi suicidi, colpi di mortaio, missili a corto e medio raggio, scontri a fuoco con armi leggere. Lo stesso Meshal, che è scampato almeno una volta al Mossad (i servizi segreti cercarono di avvelenarlo e se non fosse stato per il re di Giordania che impose agli israeliani di fornire l’antidoto il boss di Hamas ci avrebbe rimesso le penne), ha evocato al massimo un "cessate il fuoco" reciproco e mai una pace sostenibile e duratura con gli israeliani.
Bisogna intendersi anche su cosa voglia dire la parola "tregua" nella cultura islamica. La hudna, la tregua con i nemici dell’islam, appunto, una possibilità sostenuta anche dai predecessori di Meshal come il decano al-Rantissi, se stiamo ai precetti sharaitici non dovrebbe durare più di dieci anni. A questo va aggiunto che Meshal potrebbe intendere la hudna legandola ad un altro termine arabo, kitman, che presuppone il dire solo una parte della verità, celando al proprio avversario quelle che sono le proprie reali convinzioni. In conclusione, se Hamas non rinuncerà al terrorismo, se non accetterà di disarmare, se non riconoscerà lo Stato di Israele, mai e poi mai diventerà una forza politica in grado di partecipare alla vita della futura Palestina.