“Hard Brexit”, Theresa May ha messo il turbo ai conservatori
14 Ottobre 2016
di Daniela Coli
I partiti tradizionali del Novecento, i cosiddetti partiti di massa, stanno scomparendo ovunque in Europa. Per non dissolversi completamente, si uniscono: in Francia socialisti e gollisti si alleano da anni al ballottaggio per non far vincere le elezioni al Front National di Marie Le Pen, in Germania democristiani e socialdemocratici governano insieme, in Italia il Pd – l’ex Pci – ha addirittura tentato con Renzi di farsi votare dagli elettori del centrodestra per eliminare i “populisti” ( prima Berlusconi e ora il 5Stelle). Ma con tutti i suoi mandarini, dall’università alla Rai, il Pd rappresenta l’establishment, lo status quo, e dunque non è credibile. Come se non bastasse, il partito democratico è diviso da una guerra civile interna da cui è difficile capire cosa uscirà .
L’unico partito tradizionale che in Europa non solo è sopravvissuto, ma ha il vento in poppa, è quello dei conservatori, i mitici tory, il cui premier Cameron ha indetto il referendum per decidere se l’UK dovesse rimanere o lasciare l’Unione europea. La Brexit è stata trasversale (Corbyn, il leader laburista, non si capiva se faceva propaganda per il Leave o per il Remain, di cui pure era uno dei leader), ma è stata indubbiamente voluta e guidata dai conservatori, un risultato che di fatto ha già cambiato l’Europa. E adesso il Regno Unito ha un nuovo leader, Theresa May, premier al posto di David Cameron.
Theresa May sta plasmando un nuovo partito dei conservatori. E si rivolge ai lavoratori, alla gente comune, alla gran parte dei britannici, non a pochi privilegiati, ai ricchi, ai potenti, cioè a tutti quelli che si sentono cittadini del mondo e hanno quattro appartamenti in quattro diverse nazioni in nessuna delle quali sono nati. Il discorso della May, il 2 ottobre, alla conferenza del partito conservatore a Birmingham, potrebbe dare molte indicazioni anche ai partiti conservatori del Continente. Prima di tutto, il rifiuto del cittadino globale: “Se credi di essere cittadino del mondo, sei un cittadino del nulla”.
La grinta della May è quella della Thatcher del “there is no such thing as society”, ma non siamo più nei fantastici anni Ottanta della Lady di Ferro. Quasi trent’anni di globalizzazione e la crisi del 2008 hanno ridotto in povertà operai e classe media. Non siamo nel 1987 e non si può certo dire ai britannici, dopo 30 anni di governi fautori della libera circolazione di capitali, merci e migranti, continuate a sbrigarvela da soli senza chiedere aiuti al governo. Per questo,Theresa May, con un occhio anche agli elettori delusi dal Labour in crisi, ha ripetuto per ben cinque volte a Birmingham che è un dovere dei conservatori che il governo faccia tutto il bene che può fare. Il primo ministro inglese ha promesso un governo al servizio della gente comune e della classe operaia.
L’hard Brexit della May capovolge il thatcherismo e si rivolge ai più colpiti dalla crisi, agli operai. E dichiara che lo Stato esiste per fornire ciò che i mercati non possono offrire agli uomini e alle donne della Gran Bretagna e che, sempre lo Stato, deve intervenire dove i mercati sono disfunzionali. Hard Brexit: niente Ttip e “British first”. D’altronde Margaret Thatcher per proteggere gli interessi britannici e tenere alto l’orgoglio inglese fece la guerra delle Falkland. May ha capito che il paese ha votato per limitare l’immigrazione e che sta finendo l’idea della libera circolazione dei cittadini. Per questo si è appellata agli imprenditori, invitandoli ad assumere giovani locali disoccupati invece di preferire manodopera a basso costo d’oltreoceano.
D’altra parte l’unico paese dove restano in piedi i partiti tradizionali e dove non esiste un forte partito o movimento populista è proprio la Gran Bretagna, che non ebbe né la rivoluzione francese, né quelle del 1848, perché è l’unico Stato che sa davvero cambiare, ha una forte coesione nazionale e un partito conservatore versione May che vuole proteggere tutta la popolazione, anche la classe operaia. Negli ultimi decenni – scrive sul Guardian del 13 ottobre John B. Judis, autore di The Populist Explosion – dopo la fine del grande boom del dopoguerra, i principali partiti di entrambi i lati dell’Atlantico hanno promosso politiche neoliberali di libera circolazione dei capitali e del lavoro promettendo ai cittadini di raggiungere la prosperità . Ma hanno raggiunto solo l’obiettivo di favorire l’aumento dell’immigrazione e i leader tradizionali hanno scoperto che americani ed europei sono preoccupati dall’immigrazione clandestina, e questi ultimi addirittura spaventati da comunità di immigrati considerate fucine di reati e, soprattutto, di terrorismo.
In Europa continentale, per Judis, la situazione è diventata ancora più drammatica, perché gli Stati più importanti hanno deciso di accettare una moneta unica, l’euro, che è caduto in disgrazia durante la Grande Recessione. Per questa ragione, i partiti tradizionali sono incalzati da movimenti e partiti populisti. Non contestano la politica, contestano le istituzioni, l’Unione europea in primo luogo. Finora in Europa continentale contro il populismo si è agitato lo spettro del fascismo, del nazismo, della xenofobia, del razzismo, ma, come si vede in Italia e in Spagna, in partiti e movimenti come Podemos e i 5Stelle è difficile distinguere destra e sinistra. I partiti tradizionali falliscono, conclude Judis, perché non capiscono che non si tratta di una ideologia, né di destra, sinistra, o centro, ma di una nuova logica della politica, e la lotta contro le élite significa solo il fallimento dello status quo, il fallimento delle istituzioni, in primo luogo dell’Unione europea.
Il partito conservatore di Theresa May l’ha capito e ha dato l’esempio di cosa significhi cambiare la logica della politica votando insieme a molti laburisti per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea.