Herta Müller tra reportage sociale e critica alla dittatura
15 Agosto 2011
di Vito Punzi
Con questo suo romanzo del 1997, ora proposto in versione italiana (Oggi avrei preferito non incontrarmi, trad. di Margherita Carbonaro, Feltrinelli 2011, p. 190, € 16,00), Herta Müller, la scrittrice nata in Romania nel 1953 e cresciuta nella regione del Banat, una robusta enclave di lingua tedesca, chiudeva una trilogia iniziata con Anche la volpe allora era il cacciatore (1992) e proseguita con Il paese delle prugne verdi (1994), dedicata alla vita sotto la dittatura di Ceausescu. Ancora una volta ci si trova dunque coinvolti nell’esperienza traumatica di disumanizzazione dei rapporti interpersonali e della distruzione di ogni rapporto di fiducia. Al centro del racconto c’è lo stato totalitario, al cui controllo nulla può essere sottratto. E infatti, mentre i protagonisti dei due precedenti romanzi erano figure che potremmo definire “intellettuali” (un’insegnante e una traduttrice), la vittima del regime dittatoriale in questo libro è una semplice impiegata di fabbrica che nulla ha a che fare con gli oppositori allo stato: la donna, piuttosto, è semplicemente rea di cercare una risposta al proprio desiderio di felicità.
Come negli altri suoi romanzi, anche in questo la Müller è riuscita a costruire immagini di profondo turbamento e dallo spessore volutamente soffocante. L’ambiente familiare da lei descritto è devastato e la realtà esterna alla famiglia non è certo migliore. Morte e follia, menzogna e tradimento, scoramenti e ubriacature, di tutto questo è impastata la materia letteraria di questo libro, che si dipana lungo il percorso che la protagonista fa con il tram per presentarsi davanti al maggiore Albu, che l’ha convocata. Frammenti di ricordi e serie di episodi incastonati mirabilmente tra loro s’alternano al salire e allo scendere dei passeggeri. Così, per esempio, la memoria sofferta di una precedente visita ad Albu: “Avere l’impressione che il cervello mi scivoli all’ingiù sulla faccia, questo è il veleno. Umiliazione, come si può dire altrimenti, quando ti senti a piedi nudi in tutto il corpo?”
Quella della Müller è una lingua che nell’essenzialità riesce ad evocare, che nel nominare gli oggetti della quotidianità consuma il tentativo di realizzare, come la chiama lei stessa, una “pantomima del vissuto”, cerca di “giungere in prossimità dell’essenziale”. Tuttavia va segnalato che essendo qui il punto di vista quello di una donna senza una particolare formazione, il materiale linguistico utilizzato risulta essere ridotto rispetto a quello dei precedenti libri. Fin dall’inizio la donna, afferrata com’è dalla perversione del mondo che la circonda, sembra non avere alcuna chance, neppure quella di nominare ciò che desidera: “Sulla vita c’è molto da dire, sulla felicità niente, altrimenti non è più felicità”. Una piccola, povera e sempre minacciata felicità riesce a viverla solo con Paul, l’uomo conosciuto al mercato della pulci che fuori degli orari di lavoro costruisce illegalmente antenne per poter vedere i programmi delle televisioni di Belgrado e di Budapest e che possiede una moto rossa, chiaro simbolo di libertà. È proprio durante i loro viaggi in moto che lei si sente per alcuni attimi “diventare stupida dalla felicità”. Nonostante gli ammonimenti i due si sposano ed è allora che iniziano le angherie contro Paul, fino al suo licenziamento dalla fabbrica e alla distruzione, con un incidente inscenato dai servizi segreti rumeni, della sua moto. È lui l’unica persona nella quale la donna protagonista dice di avere fiducia. Ma solo fino alla conclusione del suo percorso in tram, quando per un fatto accidentale lei sbaglierà fermata, proseguendo oltre quella prevista. L’errore casuale e la perdita della fiducia segnano la vittoria della paura, che potrebbe diventare pazzia, come cifra per un sentimento finito in frantumi sotto il peso della realtà: “Ah, ah, non impazzire”, è la conclusione.