Hitler si prese la Germania grazie alla stessa deflazione che fa oggi la Bce della Merkel
30 Novembre 2011
E’ stato soprannominato il “fantasma di von Havenstein” dal nome del banchiere centrale Rudolf E. A. Havenstein della Reichsbank che prima di morire – nel 1923 – guidò la Banca centrale della Germania post-gugliemina nell’era tormentata dell’iperinflazione tedesca, quella delle carriole di denari buoni per fare il fuoco nelle caldaie a legna o raccolti nelle strade dai netturbini come foglie morte.
Se ne torna a parlare oggi mentre imperversa Lady spread, con la crisi del debito sovrano europeo al suo massimo, un 2012 da recessione e una Bce che sposa una linea di stabilizzazione del livello dei prezzi da ortodossia dei trattati e che conduce una politica deflazionistica non dissimile da quella che in gergo monetaristico verrebbe definita hard money policy – di questi tempi sostenuta ferocemente dalla cancelliera tedesca Angela Merkel in barba alle richieste di quei pochi governi politici che restano in sella e che la pensano diversamente dal clan del ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schäuble.
La vexata quaestio rimane il ruolo della Bce: deve o no la Banca centrale europea diventare il prestatore d’ultima istanza qualora i titoli di debito dei paesi europei a rischio default dovessero andare invenduti? Sulla questione è intervenuto il fior fiore dell’accademia liberal statunitense – Paul Krugman su tutti dalle colonne del New York Times – ma anche i professoroni un po’ polverosi d’Europa.
S’infoltisce sempre più il coro di quelli che ritengono (ciò inizia ad accadere anche in Germania) che Francoforte debba dar vita a politiche inflattive, abbandonando la sua strategia über harte währung, per una moneta forte, in favore di una qualche versione europea di quel quantitative easing che la Fed statunitense di Ben Bernanke mette in campo ormai dal 2008 a questa parte, acquistando prodotti tossici delle banche e che non poco frutta alla banca centrale statunitense.
Ma perché allora la Germania resiste all’idea di una politica inflattiva da parte della Bce se addirittura dalla funzione di prestatore di ultima istanza la Fed riesce anche a tirarne fuori i buoni rendimenti che prevedono prestiti nel quadro del T.a.r.p. senza neppure costi inflattivi? La tesi ricorrente è che la classe dirigente tedesca tema l’inflazione – e la sua degenerazione, l’iperinflazione – perché essa è annoverabile come una delle ragioni che permisero negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso al nazional-socialismo di Adolf Hitler di emergere, trascinando la Germania nell’ignominia morale e gettando l’Europa verso un destino di irrilevanza storica.
A parte le rivendicazioni di quelli che rifiutano che una paura collettiva di un solo paese possano mandare nel baratro altre comunità – vedi l’Italia – bisognose invece di svalutare il proprio debito, la domanda da farsi è la seguente: "E’ valido il sillogismo che presuppone che un’inflazione crescente incrementi i rischi di una crescita nella conflittualità sociale di una comunità nazionale, terreno fertile questa per l’affermazione di forze politiche di tipo autoritario? La risposta è "No, non è valido".
Nel caso tedesco empiricamente non fu l’iperinflazione a generare il nazional-socialismo. Fu invece l’aumento della disoccupazione – nel 1932 arrivata al 33% della forza lavoro – a scatenare l’ascesa di Hitler. Lo scorso 18 Novembre Dylan Grice, analista a Société Générale, ha firmato un paper dal titolo “Exorcising von Havenstein’s ghost” per la serie ‘Popular Delusions’, nel quale l’analista smentisce apertamente, dati alla mano, la tesi in base alla quale l’iperinflazione tedesca degli anni ‘20 abbia creato le condizioni per l’ascesa hitleriana.
Secondo Grice sarebbe stata invece la paura dell’iperinflazione figlia delle brutte esperienze dell’inizio degli anni venti che avrebbe condizionato le rigide politiche deflazionistiche della Reichsbank tedesca all’indomani della crisi del 1929. Mentre tutti i grandi paesi euro-atlantici abbandonavano il gold standard nel periodo post-crisi del 1929, svalutando le rispettive valute, la Germania formalmente già uscitane nel 1931, manteneva comunque una mentalità da parità aurea – con alti tassi d’interesse e politiche deflazionistiche.
Nel 1923 l’iperinflazione toccò il massimo picco in Germania. Nel 1924 avvenne la stabilizzazione monetaria che diede vita nel 1925 ad un’altra recessione, la seconda che subirà la Germania negli anni ‘20. Nel 1926 riparte la locomotiva internazionale e il tasso di disoccupazione in Germania scende sotto il 10%. Nel 1929 arriva la crisi finanziaria statunitense. L’America inizia a dragare i propri aiuti- fondi dalla Germania messi a disposizione del paese europeo per la sua ricostruzione postbellica.
Il ritiro dei capitali statunitensi nel 1930 getta di nuovo la Germania nell’ennesima recessione economica nella quale cade del resto tutto il mondo nel 1931. La disoccupazione tedesca torna a salire. La reazione di Regno Unito, Giappone e Stati Uniti è la quella giusta: dare vita a politiche deflattive.
La Germania invece no. Non svaluta. La Reichsbank lascia tassi d’interesse alti. La memoria dell’iperinflazione di dieci anni prima è così forte da costringere ideologicamente i banchieri centrali tedeschi a tenere il marco solido. Qualora avessero svalutato – probabilmente – vi sarebbe stato certo un aumento dell’inflazione ma anche una diminuzione della disoccupazione.
Nel 1933 la disoccupazione tedesca sale invece al 33%. Se si analizza la dinamica di crescita della disoccupazione nella Germania tra gli anni ’20 e ’30 e i risultati elettorali del NSDAP, il partito nazional-socialista guidato da Hitler*, si osserva che non è l’inflazione a spingere il popolo germanico nelle braccia dei nazisti, bensì la mancanza di lavoro, la disoccupazione. Un dinamica che grazie alla politiche deflattive assunte dalla Banca d’Inghilterra nello stesso periodo mantenne la disoccupazione britannica sotto il 20%.
Tornando a oggi, non si capisce allora perché la classe dirigente tedesca abbia così invisa l’inflazione. La posta in palio è alta e la posizione della Germania – senza dubbio oggi il paese più potente d’Europa – deve essere oggetto d’analisi approfondita. A Berlino di ritiene che le politiche di responsabilità fiscale adottate negli ultimi otto anni dal governo tedesco siano e debbano essere l’esempio da seguire per tutti i paesi dell’eurozona in particolare quelli del Mediterraneo: Italia, Spagna, Portogallo e Grecia.
Ora, la Germania non è la prima della classe perché ha i conti in ordine. E’ la prima della classe perché cresce. E’ facile tenere i conti in ordine quando si cresce. L’economia tedesca cresce perché le esportazioni germaniche verso l’Asia, notoriamente la Cina, hanno negli ultimi tre anni trainato l’industria e innescato una dinamica economica virtuosa. Il ‘giocattolo’ però sta per rompersi anche nel Regno di Mezzo: la bolla del credito cinese sta per esplodere e c’è da ritenere che un tale fenomeno avrà un forte impatto anche sulla domanda interna di prodotti d’importazione tra cui – com’è lecito attendersi – anche quelli tedeschi.
Cosa accadrà allora in Germania quando la produzione industriale si sgonfierà e i tassi di crescita non saranno più quelli attuali? Il governo tedesco sarà allora più disponibile forse a prendere in considerazione una svalutazione della moneta unica europea magari per prevenire l’aumento della propria disoccupazione e una contrazione della domanda interna?
Se così dovesse essere, tutti coloro che hanno gridato – a torto o a ragione – allo scandalo, denunciando il fatto che l’euro è stato preso in ostaggio da un solo paese, avranno la prova provata che dietro la rigidità tedesca c’è solo opportunismo nazionale e non una visione ideologica volta a premiare, come si vorrebbe, la responsabilità in finanza pubblica dei paesi europei virtuosi. Sarebbe una scoperta sgradevole che minerebbe in profondità la già esile comunanza di destino dei popoli europei, già morta quella tra le classi dirigenti nazionali.
Comunque vada a finire, che prevalgano gli inflazionisti o meno, una Bce più incline a fare inflazione permetterebbe all’Europa di guadagnare solo un po’ di tempo. I problemi del Vecchio Continente non hanno a che fare con l’inflazione o la deflazione. Sono altri e in particolare tre: spesa pubblica fuori controllo; un ambiente giuridico e burocratico ostile all’impresa; un’iper-regolamentazione che sfavorisce investimenti esteri e disincentiva la creazione di ricchezza.
Prima l’Europa farà i conti con questi problemi e meglio sarà, con o senza Bce prestatore di ultima istanza.
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