Ho sempre voluto dipingere un sorriso, ma non ci sono mai riuscito

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Ho sempre voluto dipingere un sorriso, ma non ci sono mai riuscito

25 Ottobre 2008

Cento. Nel 2009 saranno cento gli anni trascorsi dalla nascita di Francis Bacon e per anticipare l’evento, la Tate Britain di Londra gli da dedicato (dallo scorso 11 settembre fino al 4 gennaio 2009) una grande mostra per celebrarlo. Esposti nella sede di quella che fu anche una delle prima istituzioni a credere nella sua arte,  non solo settanta opere tra le più importanti della sua produzione, ma anche materiali inediti ritrovati nel suo studio di South Kensington.

Di Bacon non si parla solo per questa meravigliosa mostra o per le altre che lo hanno visto recentemente protagonista, tra cui quella di Palazzo Reale a Milano degli scorsi mesi, ma anche per il suo essere tra i protagonisti assoluti delle aste di questi ultimi anni.

A Londra lo scorso giugno, “Study for Head of George Dyer” del 1967 da Sotheby’s ha segnato il record della serata nel corso della Contemporary Art Evening Sale. Base d’asta di 8,8 milioni di euro il quadro ha visto sfidarsi tre collezionisti fino alla cifra di 15 milioni per poi invece essere aggiudicato ad un compratore che agiva telefonicamente per il multimilionario russo Roman Abramovic. Il proprietario della squadra di calcio del Chelsea se lo è portato a casa per 17,3 milioni di euro come regalo alla sua fidanzata, vera appassionata d’arte.

Ma ancor prima, nel mese di maggio, e sempre per mano di Abramovic, Bacon aveva realizzato un importantissimo record quando “Triptych, 1976” è stato battuto da Sotheby’s per 57,7 milioni di euro, divenendo il nuovo record per un’opera di arte contemporanea.

Il mercato d’arte sembra ancora immune, anche se non si sa per quanto, dai grandi sconvolgimenti dati dalla crisi finanziaria, e il mercato di Bacon è senza dubbio uno dei casi più clamorosi visto che negli ultimi anni il suo valore è divenuto 20 volte maggiore Questo è dovuto certamente ad una qualità pittorica straordinaria, che ha portato molti a ritenerlo secondo solo a Picasso, di cui era grande estimatore e inizialmente emulo, nella storia dell’arte del Novecento.

Ma questo da solo non basta. C’è dell’altro, c’è la scarsezza di opere, pare che ve ne siano solo 600 in giro per il mondo perché il maestro ne ha distrutte tantissime quando ancora in vita. Ma c’è un ulteriore aspetto. In un momento in cui gli artisti si trasformano sempre di più in businessman dal portafogli gonfio come Damien Hirst, Francis Bacon resta una delle ultime figure mitiche dell’artista di altri tempi, il prototipo dell’artista maledetto: i contrasti con il padre, gli infiniti viaggi, ma anche l’omosessualità, gli amori tragici, e la grande passione per il gioco e per i pub. Ultimo tra i Bohemien che tanto piacciono al grande pubblico, l’artista irlandese di nascita ma inglese di famiglia, discendente del grande filosofo rinascimentale di cui porta anche il nome, ha visto la sua fama accresciuta dopo la morte a Madrid nel 1992, supportata dalla straordinaria ricomparsa di alcuni lavori prima nella galleria Faggionato di Londra e poi nella galleria newyorchese di Tony Shafrazi nel 1999.

Con forza e potenza straordinaria l’opera di Bacon riassume la violenza e la solitudine dell’uomo contemporaneo. Un uomo fatto di quella carne che già Caravaggio, Rembrandt, due artisti ai quali non si può non pensare quando ci si trova davanti ad un’opera di Bacon, avevano visto come deformata e decomposta. Deformi e mostruose sono quei corpi straziati di Bacon, i suoi volti urlanti e i suoi ritratti metamorfici nei quali si trova forse tutta la sua grandezza.

La mostra della Tate presenta in modo completo la carriera di Bacon, dagli anni degli esordi fino alla sua morte. Una mostra che esprime come egli sia stato innovativo senza in realtà volerlo e come abbia contribuito a cambiare l’arte ancora dopo tutte le avanguardie solo e soltanto con un pennello e una tela.

La mostra è anche un diario, un occhio indiscreto che attraverso le opere sbircia nella vita privata di un artista che per suo stesso dire aveva sempre dipinto perché mosso da esperienze personali e intime.

Questo guida il visitatore che in un percorso che vede un momento chiave della sua vita nella guerra. Un’esperienza così tragica che lo avrebbe portato a dichiarare che tutte le sue opere anteriori al 1945 non avevano alcun valore. La guerra lo avrebbe segnato psicologicamente e i segni si sarebbero in seguito riflessi nelle sue tele in cui le figure umane verranno stravolte, disumanizzate.

Le teste degli anni sessanta, infatti, appaiono contorte, le figure sono isolate su sfondi neri o blu, e nonostante i soggetti ritratti siano spesso uomini d’affari in abiti eleganti, la maggior parte suoi committenti, non c’è spazio per la raffigurazione, come per il suo grande amico Lucien Freud, ma solo per la trasfigurazione del corpo. Come avviene nelle rivisitazioni del Ritratto di papa Innocenzo X da un’opera di Velázquez, in cui l’artista irlandese si dedica, in un soggetto che lo inseguirà per tutta la vita, all’atto di "sfigurare" l’immagine di perfetta armonia del maestro spagnolo, nel tentativo di reinterpretare in modo personale, lui che era ateo, l’immagine del papa.

Il processo di trasfigurazione trova il suo massimo raggiungimento nei Trittici degli anni ’70, che evidenziano come egli continui in modo esasperato lo studio dei soggetti con il fine unico di entrare nei meandri nascosti dell’animo umano. Infine gli anni della maturità in cui il suo sguardo sempre morbosamente ossessivo si fa da un lato più morbido e dall’altro più fosco forse nella raggiunta consapevolezza che l’animo come il corpo, sia destinato ad una fine irreversibile: “Ho sempre voluto dipingere un sorriso, ma non ci sono mai riuscito”.