I Balcani da fiore all’occhiello tornano “sorvegliati speciali” della UE

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I Balcani da fiore all’occhiello tornano “sorvegliati speciali” della UE

17 Febbraio 2011

La battuta di Churchill sui Balcani che producono più storia di quanta ne consumino è certamente umorismo nero. Però qualcosa di vero c’è. Una  diffusa debolezza e di instabilità politica, causata anche da una profonda crisi economica e sociale, caratterizza la maggior parte dei paesi dei Balcani  occidentali in questo periodo. Questa situazione potrebbe complicare e ritardare il percorso di avvicinamento e ingresso nell’Unione Europea.

Partiamo dall’Albania dove ultimamente il governo conservatore di Sali  Berisha è ai ferri corti con l’opposizione socialista guidata dal sindaco di  Tirana, Edi Rama. Una lotta di potere dei due senza precedenti sta causando una instabilità politica e sociale molto grave. Le ultime proteste di piazza dell’opposizione albanese sono esplose nella violenza e negli scontri con le forze dell’ordine, con 4 morti e centinaia di agenti feriti. Ma non è un’altra Tunisia. E non siamo nemmeno in un nuovo 1997, l’anno in cui un micidiale crack economico  portò all’anarchia nel Paese delle Aquile, all’emigrazione di massa, allo strapotere delle mafie e a una mezza guerra civile che lasciò sul campo 2mila vittime. Paragoni azzardati, questi. La soluzione possibile per attraversare la crisi politica a Tirana sta nelle elezioni dell’8 giugno prossimo. Ma non è detto che la situazione torni alla normalità.

Negli ultimi mesi anche gli altri Paesi della ex Jugoslavia sembrano contagiati da una strana sindrome che, proprio nel momento in cui si vivono i rapporti più floridi con la Ue, nella cooperazione, come maturità politica, vedono una serie di scandali, cortocircuiti politico-criminali e rigurgiti estremisti che ne compromettono l’immagine, bruciando le leadership e allarmando le cancellerie comunitarie. È una sorta di effetto domino partito dalla Serbia, quando all’inizio di ottobre, nell’arco di un weekend, gli ultranazionalisti sono usciti dal bunker mettendo prima a soqquadro Belgrado durante il Gay Pride e poi gli spalti del Marassi di Genova, nel corso della partita di calcio tra la nazionale serba e quella italiana.

A Belgrado il governo del premier Mirko Cvetkovic e il Presidente Boris Tadic è in difficoltà da mesi, in mezzo a sempre più insistenti boatos di un rimpasto di governo e di una riduzione del numero dei ministeri. Da un lato vi è il desiderio di rendere il governo più snello e agile, dall’altra i contrasti e conflitti tra i membri del governo sono sempre  più evidenti. in Serbia, dove le elezioni generali si terranno entro l’anno, il malcontento sociale legato alla crisi economica sta aumentando e in questi giorni si esprime attraverso una serie di scioperi,  da parte di insegnanti di polizia e personale sanitario in particolare. Il 5 febbraio, decine di migliaia di persone hanno manifestato nel centro di Belgrado, nella più grande dimostrazione sperimentata dalla capitale serba negli ultimi dieci anni. La protesta è stata  un’iniziativa del Partito progressista serbo (SNS), il maggiore partito di opposizione.

A dicembre il virus si era spostato a Zagabria, dove l’ex primo ministro Ivo  Sanader, dimessosi nel 2009, accusato di corruzione e senza più immunità  parlamentare, ha cercato di scappare all’estero. Il fuggitivo è stato fermato in Austria – attualmente si trova in carcere – dopo che la polizia di Vienna ha dato esecuzione al mandato di cattura prontamente spiccato da Zagabria. La vicenda certifica che la Croazia, prossima all’ingresso in Europa, intende seriamente dare la caccia, come promesso dal governo di Jadranka Kosor, a chi ha sgarrato, quale che sia o sia stata la sua posizione. L’Ue applaude. Il problema, però, è che in queste settimane è saltato fuori che una parte delle tangenti che Sanader e il suo partito (l’Hdz) hanno intascato nel corso degli anni sarebbero state utilizzate per fare lobbying su Bruxelles e accelerare il negoziato sull’adesione. Ora la Ue vuol vederci chiaro, prima di aprire le porte alla Croazia, la cui probabile data d’ingresso nell’Unione, prevista per il primo luglio 2012, potrebbe slittare di qualche mese. Si vedrà.

A una manciata di giorni dalla grana Sanader è scoppiato l’affaire Thaci. Un rapporto del Consiglio d’Europa, diffuso il 15 dicembre, ha rivelato che i guerriglieri dell’Uck, di cui Thaci fu capo politico, avrebbero autofinanziato la lotta armata contro la Serbia gestendo traffici di ogni tipo, in primo luogo  di organi umani, espiantati perlopiù da vittime serbe. Thaci, riferisce il rapporto, era a conoscenza di questo crimine. Certo, c’è da dire che il Kosovo, indipendente dal 17 febbraio 2008, non è certo a un passo dall’Europa. Però la questione rischia di bruciare Thaci e portare le potenze occidentali – che peraltro pare sapessero delle sue presunte malefatte – a rivedere l’appoggio da sempre fornito all’ultimo degli stati sorti sulle ceneri della Iugoslavia e al suo attuale primo ministro.

Dopo Thaci, Milo Djukanovic. Il 21 dicembre il chiacchierato primo ministro montenegrino, sospettato di rapporti intimi con le mafie, s’è dimesso. Qualcuno sostiene che la sua uscita di scena sia stata concordata con Bruxelles, in cambio del conferimento, alla piccola repubblica adriatica, del rango di paese candidato all’ingresso nella Ue. Altri, come Milka Tadic, direttrice del settimanale montenegrino Monitor, pensano invece che si sia defilato perché temeva che, dopo Sanader e Thaci, sarebbe toccato a lui finire nell’occhio del ciclone. Benché Bruxelles abbia offerto un bell’incentivo, ci vorrà comunque del tempo prima che Podgorica s’avvicini al traguardo, dato che la lotta alle mafie, requisito essenziale per l’ingresso nel club comunitario, non sembra decollare.

In Macedonia continua a salire la tensione politica per la forte contrapposizione tra governo di Gruevski e forze di opposizione, che contestano il congelamento dei conti bancari di una tv e di altri organi di stampa ritenuti scomodi dal potere. Alcuni partiti dell’opposizione chiedono elezioni anticipate, e la crisi politica rischia di aggravare la situazione generale nel Paese, dove è diffuso un forte malcontento per la disoccupazione molto alta. Ma non finisce qui. Per allontanare la visione dei problema centrale se ne crea uno in periferia. La strategia della tensione nella capitale macedone è nata a causa della costruzione della chiesa ortodossa nel Castello di Skopje. Un gruppo di macedoni, sostenitori del progetto per la costruzione della chiesa, si sono riuniti all’interno del Castello, mentre al fuori dello stesso si trovavano manifestanti albanesi che contestano l`inizio dei lavori. La situazione si è aggravata dopo che è stato permesso a circa 200 manifestanti macedoni di entrare all’interno del Castello, che hanno iniziato a colpire con pietre i manifestanti albanesi al di fuori delle mura. L`ulteriore escalation si è verificata quando i manifestanti albanesi hanno tentato di entrare con forza all’interno del castello, scontrandosi con la polizia. Alcuni albanesi sono rimasti feriti, tra cui anche il membro del movimento "Zgjohu", Artan Grubi. Gli albanesi contestano la costruzione della chiesa al Castello di Skopje, che, secondo gli storici, rappresenta un bene di valore storico risalente dal periodo degli illiri.