I bestseller che non valgono niente

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I bestseller che non valgono niente

11 Marzo 2012

Lo scontro fra Pietro Citati e Giorgio Faletti, il grande critico contro il campione del thriller italico, è un copione che va in onda ripetendosi da cinquant’anni nella nostra comunità delle lettere.  Citati non sopporta quelle storie "dove ciò che conta è la volgarità, la banalità della trama e la mediocrità dello stile," sostenendo che i bestseller non valgono nulla da un punto di vista, appunto, letterario. Faletti invece si sente perseguitato, "Io, bersaglio come Totò", titola il Corsera ravvivando la polemica. Si tratta però di una commedia degli equivoci, un gioco delle parti sul valore della scrittura, in cui critici e autori trascurano un elemento decisivo, che sottende lo stile e il contenuto di un’opera. E cioè il suo valore economico. Quanto vale un bestseller? Il loro peso, se li consideriamo come merci, non è determinante. Faletti sul suo blog dichiara di aver venduto 4 milioni di copie  con "Io uccido", il suo libro di esordio, ma svettare in cima alle classifiche non è sinonimo di un mercato in buono stato. Bestseller sì, ma solo di nome.  Nel 2010, l’intero comparto dell’editoria (compresa quella scolastica) ha fatturato all’incirca 3,4 mld di euro (Dati AIE/Istat), lo 0,2 per cento del PIL italiano. Ai piani bassi del sistema, dove la tiratura media di un libro è al massimo di cinquemila copie, molte case editrici hanno dovuto chiudere (o fondersi creando dei cartelli). Aggiungiamo un ultimo dato, il Web. La vera pietra tombale sui vecchi bestseller rischia di metterla l’editoria digitale, che si sta affermando grazie al taglio sempre più drastico dei costi di produzione e distribuzione. La Rete offre una "economia di nicchia" in cui ogni lettore può cercare, e trovare, il libro che desidera, classico, moderno, eccellente, spazzatura… Una logica inversa a quella del bestseller che presuppone schiere di fan affezionati. Dietro i commenti degli utenti che hanno animato i social media dopo il battibecco fra Citati e Faletti, insomma, si nasconde un’industria dissanguata. Dietro la bellettristica sulla rilevanza culturale del romanzo, la sua irrilevanza economica.