I candidati e il rompicapo cinese
20 Marzo 2008
di redazione
Le drammatiche notizie provenienti in questi giorni dal Tibet riportano in primo piano la questione cinese nella corsa per la Casa Bianca. Come si comporterà il futuro presidente degli Stati Uniti con Pechino? Sarà intransigente sulla difesa dei diritti umani oppure cercherà un compromesso con il gigante asiatico, sempre più forte economicamente? Qualche risposta ce la offrono le dichiarazioni sulla Cina rilasciate da Obama, Clinton e McCain negli ultimi anni.
Barack Obama è stato il più pronto a diffondere un comunicato sulla grave situazione in Tibet. Il senatore dell’Illinois si dichiara “profondamente preoccupato” per gli arresti e le violenze perpetrate dai cinesi all’indomani delle proteste dei monaci buddisti tibetani. Obama chiede al governo di Pechino di rispettare i diritti del popolo del Tibet, auspica che la regione possa finalmente godere di una “vera autonomia” e che al Dalai Lama sia permesso di tornare nella sua terra d’origine. Guardando poi alle Olimpiadi di Pechino non chiede boicottaggi, ma spera che questo evento sia colto dal governo cinese come un’occasione per cambiare l’immagine del Paese, a partire dall’atteggiamento nei confronti dei tibetani.
Anche la campagna di Hillary Clinton ha diffuso un comunicato sul Tibet. Il tono è simile a quello utilizzato da Obama. In aggiunta, la senatrice di New York ricorda alcune iniziative personali in favore della causa tibetana. Hillary rammenta di aver incontrato il Dalai Lama e di aver promosso il “Tibetan Policy Act” del 2001 per favorire un negoziato tra Pechino e Lhasa. Ricorda, inoltre – come già nella sua autobiografia “Living History” – di aver perorato le ragioni dei tibetani direttamente con il presidente cinese Jiang Zemin, impegnato in una visita di Stato negli USA nel 1997. Anche John McCain ha detto la sua sul Tibet attraverso un comunicato. Il candidato repubblicano alla presidenza deplora “la continua oppressione dei tibetani che vogliono solamente professare la propria fede e mantenere la propria cultura”. Come Hillary, anche McCain menziona un suo incontro con il Dalai Lama, che definisce “uomo di pace” e voce delle aspirazioni tibetane. Il senatore dell’Arizona chiede alle autorità di Pechino, specie nell’anno delle Olimpiadi, di porre fine alle violenze e di intavolare un negoziato di pace con il Dalai Lama.
Se, dunque, sui diritti dei tibetani i tre candidati assumono una posizione simile, non altrettanto si può dire per i rapporti politici ed economici con la Cina. Già otto anni fa, nelle presidenziali del 2000, McCain contestò la definizione di “partner strategico” degli Stati Uniti attribuito da Bill Clinton alla Cina. Per il senatore del GOP, bisogna affrontare energicamente la sfida posta dalla nuova super potenza. Anzi, l’ascesa della Cina è per lui “la più grande sfida per la politica estera americana dei prossimi anni”. Riforma del sistema politico cinese, difesa dei diritti umani, protezione di Taiwan sono i temi ricorrenti nelle dichiarazioni di McCain sulla Cina. Tuttavia, per il veterano del Vietnam il colosso asiatico “non è destinato ad essere un avversario degli Stati Uniti”. In un articolo per “Foreign Affairs”, di fine 2007, McCain sottolinea che USA e Cina hanno numerosi interessi in comune. Da un rafforzamento delle relazioni tra Washington e Pechino possono quindi trarre beneficio non solo i due Paesi, ma tutta l’area asiatica e del Pacifico. McCain riconosce, però, che i rapporti Cina-USA sono basati sugli interessi piuttosto che su valori condivisi. Il senatore ha sempre criticato le violazioni della proprietà intellettuale da parte delle aziende cinesi. Né ha mancato di strigliare Yahoo e Google, che per fare soldi in Cina hanno accettato di sottostare alla censura imposta su Internet dal governo di Pechino.
Si accennava al feeling tra Bill Clinton e i cinesi. Ma come si caratterizzerebbe la presidenza della moglie nei rapporti con Pechino? Hillary Clinton ritiene che le relazioni bilaterali con Pechino siano le più importanti del secolo. Vorrebbe un patto a tre con Giappone e Cina per combattere il surriscaldamento del globo e favorire un’economia ecosostenibile. Auspica che la Cina sia sempre più integrata nel sistema delle istituzioni internazionali, ma denuncia le persistenti violazioni dei diritti umani da parte cinese. Nel 2005, la senatrice di New York ha scritto una lettera al George W. Bush chiedendogli di fare pressioni sulle autorità di Pechino al riguardo. A febbraio del 2007, però, critica aspramente il presidente sulla Cina. Parlando al “Democratic National Committee”, afferma: “Perché non assumiamo posizioni nette con la Cina? Perché il nostro debito è esploso sotto questa presidenza. Ora noi dipendiamo dai cinesi e come puoi essere duro con i tuoi finanziatori?”.
Oltre al leit motiv dei diritti umani, Barack Obama mostra particolare attenzione per le conseguenze dell’ascesa economica cinese sul mercato del lavoro statunitense. Il senatore afro-americano sponsorizza una proposta di legge per pressare la Cina affinché provveda alla rivalutazione della sua moneta. In una lettera al Segretario al Commercio, Henry Paulson, Obama scrive che il governo cinese ha “manipolato la sua moneta per ottenere dei vantaggi commerciali a danno degli Stati Uniti”. E lamenta la debolezza dell’amministrazione Bush nel far valere le ragioni degli imprenditori e degli operai americani. La sua visione dei rapporti con Pechino la sintetizza in un’intervista a “Foreign Policy” del dicembre del 2007. La Cina? “Non un amico. Non un nemico. Un competitore”.