I Cattolici e lo Stato nazionale
07 Febbraio 2009
Ottone di Bismarck aveva detto l’essenziale nella conversazione col politico inglese Charles W. Dilke quando, parlando di Francesco Crispi, non aveva esitato a ritenerlo più grande di lui, aggiungendo però che lo statista siciliano non aveva dietro di sé due risorse cruciali: lo Stato e l’esercito. Lo ricorda Christopher Duggan, nel saggio fondamentale su Francesco Crispi, Creare la nazione (Ed. Laterza). Illustrando giorni fa sul ‘Corriere della Sera’ le linee di un altro ponderoso volume, La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 a oggi (Ed. Laterza), in questi giorni in libreria, lo storico inglese scrive che <la debolezza dello Stato in termini di legittimazione popolare condusse all’adozione di misure che si proponevano di sanare la frattura tra ‘Paese legale’ e ‘Paese reale’ ma che si rivelarono di fatto controproducenti>. L’Italia non aveva saputo creare un ‘mito di fondazione’—come la ‘Gloriosa Rivoluzione’ del ‘600 per l’Inghilterra o il 1789 per la Francia—e i tentativi fatti su questa via—l’economia, la scuola, il suffragio allargato, il carisma della monarchia—ebbero sempre effetti limitati a causa dei due potenti fattori, per così dire, `snazionalizzanti’, che impedirono a lungo ogni fedeltà alle nuove istituzioni: la Chiesa e il socialismo. Il compito, peraltro, non era facile e Duggan dimentica che 1’89 non fu tanto un ‘mito di fondazione’ dello Stato—che già esisteva da almeno due secoli—ma il simbolo della sovranità nazionale ovvero del popolo che, dando l’assalto alla Bastiglia, intendeva prendere in mano il proprio destino e sedersi sul trono lasciato vuoto dai <re che avevano fatto la Francia> .Lo ‘Stato risorgimentale , fuor di dubbio, in un paese che la Controriforma aveva unito nell’obbedienza a San Pietro—e fu la sua decisiva funzione storica, stando al Croce della "Storia dell’età, barocca in Italia"–non nasceva dalle viscere della ‘società civile’ ma in deciso contrasto con la religione cattolica che pure lo Statuto Albertino aveva dichiarato ufficiale.
E tuttavia finora non si è riflettuto abbastanza sul fatto che la Chiesa non poteva non avere nel suo dna un’implacabile, e tutt’altro che incomprensibile, avversione nei confronti dell’idea stessa di ‘stato nazionale’ . Il Vicario di Cristo, portatore di un’idea universale, predilige naturaliter le unità imperiali per ragioni che forse, dopo le due disastrose guerre mondiali, comprendiamo assai bene (e le apparenti eccezioni—la sollecitudine, nell’Ottocento, per l’Irlanda e per la Polonia, oppresse da due, pur diverse, unità imperiali, l’Inghilterra e la Russia zarista—confermano la regola, trattandosi, nei due casi, non del sostegno a un nuovo, improbabile, stato nazionale ma della richiesta di ampie zone di autonomia e di rispetto per i sudditi cattolici).
L’impero, infatti, non solo è per definizione unione di etnie culturali–<i miei popoli>, diceva Francesco Giuseppe—ma è caratterizzato, tendenzialmente, dal ritrarsi della politica dalla società civile e dal suo affidamento a una burocrazia imparziale che chiede solo di lavorare indisturbata e, in cambio, lascia che la densità della vita e delle relazioni interpersonali si produca all’interno delle comunità—culturali, linguistiche, religiose etc. Di qui, sia detto per inciso, il suo limite ma anche il suo fascino–colto assai bene da Claudio Magris nei suoi saggi sulla Mitteleuropa—consistente nel disimpegnare gli individui dalla `libertà degli antichi’, facendoli ripiegare nella meditazione di se stessi, della vita, del tempo che fugge e delle speranze che appassiscono: è casuale che il valzer, con la sua struggente malinconia, e la psicanalisi abbiano avuto i loro natali nei domini asburgici? L’impero—persino quello ottomano che faceva, in qualche modo, convivere in Palestina ebrei, musulmani, cristiani etc.— è costretto alla tolleranza che costituisce la sua più sicura garanzia di durata, una diga contro i progetti di rigenerazione morale e intellettuale atti a ‘de-finire’ e a ‘separare’ i popoli. Quando l’essere magiaro diviene fondamento della cittadinanza e principio di legittimazione della comunità politica, non solo il transilvano a nord e l’italiano in Dalmazia rischiano di vedersi ridotti a cittadini di serie B ma diventa arduo fare accettare un governo e una burocrazia, residenti a Vienna, che parlano tedesco e appartengono a una diversa etnia culturale. I versi di Franz Grillparzer .<dall’umanità alla bestialità attraverso la nazionalità> spiegano a sufficienza il motivo per cui erano vietati nell’Università di Vienna i Discorsi alla Nazione tedesca di J. G. Fichte: a ispirarli, infatti, era una filosofia che risolveva l’uomo nel cittadino e al Paradiso ultraterreno sostituiva la gloria della polis. Era nata una nuova religione non molto diversa dalla foscoliana <religion che con diversi riti /le virtù patrie e la pietà congiunta/tradussero per lungo ordine d’anni>.
La Chiesa nuota come un pesce nelle acque comunitarie finché altri culti esigenti, in primis quello patriottico, non cambiano la gerarchia dei doveri e il passaporto non diventa più importante del certificato di cresima. Di qui l’ostilità di Benedetto XV alla guerra mondiale, 1′<inutile strage>, un’ostilità dettata non solo da un generoso e sofferto pacifismo ma dal presentimento della fine irrimediabile di un’epoca. Il cattolicesimo liberale, che espresse alcuni tra gli spiriti più eccelsi dell’Ottocento, a cominciare da Alessandro Manzoni, non riuscì a quadrare il cerchio ovvero a dare un’anima cattolica al nuovo Stato nazionale e per una difficoltà obiettiva: la fine del potere temporale, infatti, prefigurava il rischio di ridurre il pontefice a cappellano della dinastia vittoriosa, come in parte era successo nei paesi riformati, Inghilterra
e Germania, innanzitutto, dove, però, la pluralità delle confessioni religiose aveva impedito la simbiosi tra `trono’ e ‘altare’ ma non l’emulazione patriottica tra le diverse chiese e sette.
Dopo il 1861, nelle campagne il forte radicamento della Chiesa si tradusse in terra bruciata fatta attorno alle nuove istituzioni e alla ‘cultura politica’ che le sorreggeva. In virtù di questa cintura sanitaria, chi non andava più in parrocchia poteva venir, reclutato da movimenti sovversivi che non a caso coniugavano un acceso anticlericalismo con la lotta senza quartiere alla borghesia e al suo Stato. Se l’economia e la scuola avessero conseguito maggiori successi rispetto a quelli (pur notevoli) che registrarono, contrariamente a quel che pensa l’ottimo Duggan, i difficili rapporti tra Stato e cittadini difficilmente sarebbero migliorati in proporzione.
Ma questa è solo l’altra faccia della Luna giacché va pure ribadito con forza che lo spirito anti-imperiale dello Stato nazionale, sia nella versione liberale-cavouriana che in quella democratico-mazziniana, rappresentava un traguardo civile ineludibile: solo liberandosi dai vincoli comunitari e dal peso delle tradizioni l’individuo poteva sentirsi pienamente uomo e cittadino, decidere liberamente che senso dare alla sua esistenza, scegliere in assoluta autonomia di quali `societates’ far parte e per quale modello politico impegnarsi.
Ai liberali con tentazioni neo-con, che vedono nell’intransigentismo cattolico un inaspettato alleato per via dei ‘limiti’ che la Chiesa pone all’invadenza dello Stato e che possono farne una preziosa alleata del liberalismo, ieri come oggi, va fatto rilevare che i <limiti> del liberalismo non coincidono con quelli della Chiesa. I primi sono costituiti dalle libere associazioni, con diritto imprescrittibile di entrata e di exit, i secondi sono costituiti dalle comunità ‘naturali’, di cui si è membri ‘per destino’ e alle quali si deve una dedizione assoluta, che nulla concede al discorso <de gustibus> ovvero alle predilezioni e vocazioni individuali. Anche nella società aperta si trovano ‘famiglie’ e ‘tribù’ ma esse sono liberamente scelte e non hanno alcun potere di consegnare il transfuga al boia o all’inquisitore. Non è certo per sterile polemica laicistica che va ricordata la XV proposizione condannata dal ‘Sillabo’ di Pio X: < É libero ciascun uomo di abbracciare e professare quella religione che, sulla scorta del lume della ragione, avrà reputato essere vera>. Tale proposizione, infatti, compendia quel processo di liberazione dalle ‘appartenenze’ e dalle supreme autorità spirituali del passato che giustificava—e non solo in Italia—la fondazione dello Stato nazionale. L’ostilità e la diffidenza nei confronti di quest’ultimo ci parlano di storie e di filosofie assai diverse e talora opposte: nello stato unitario un Carlo Cattaneo temeva una limitazione di libertà individuale, un Monaldo Leopardi una sua innaturale dilatazione. Per questo, specialmente nel Sud, la borghesia intellettuale colta si rassegnò a buttare il federalismo alle ortiche. Come avrebbe scritto negli anni venti Gaetano Salvemini :< quella monarchia burocratica, rappresentativa, censuaria, era, un secolo fa, il solo ordinamento politico ed amministrativo, con cui potesse essere soddisfatto in Italia il bisogno di indipendenza e di coesione nazionale>. Avrebbe potuto aggiungere:<era il solo ordinamento esistente in grado di garantire, sia pure in maniera intermittente e insoddisfacente, la laicità del diritto e dello Stato e la libertà di "ciascun uomo di abbracciare e professare quella religione che, sulla scorta del lume della ragione, avrà reputato essere vera">.
Avevano quindi ragione gli uni e gli altri, i ‘papisti’ e i `laici’ risorgimentali? Purtroppo, le cose stanno proprio così: c’era una profonda saggezza nell’ostilità vaticana al principio di nazionalità ma ce n’era altrettanta nei suoi fautori. Se avessero potuto leggere nel futuro, gli uni non si sarebbero meravigliati dell’avvento del fascismo—degenerazione, sì, ma di uno ‘stato nazionale’ in cui avevano fin da subito avvertito odore di zolfo—; gli altri si sarebbero compiaciuti per l’impatto dello stato risorgimentale sul processo di secolarizzazione destinato, alla lunga, a vanificare il potere dei ‘preti’ sulle anime. Oggi i dubbi sull’esito di tale processo rischia seriamente di farne dimenticare le conquiste civili e positive. E soprattutto di far smarrire la saggezza del primo, grande, liberalismo europeo—Staël, Guizot Tocqueville— fondata sull’idea che <la storia ha le sue ragioni> e quindi ce ne sono di ottime anche la breccia di Porta Pia. Alla saggezza liberale, l’illuminismo e il razionalismo laicista europeo, in pieno ottocento, avevano sostituito un’altra, molto diversa: <c’è una Ragione nella storia>. Lager e gulag, però, hanno dissolto questa ottimistica filosofia della storia, guarendo gli occidentali da ogni illusione sulle `magnifiche sorti e progressive’. A terzo millennio iniziato, si tende, quasi da ogni parte, a credere che <non c’è ragione nella storia> o meglio che <la ragione è contro la storia>. Ne deriva che tutti i `vinti’–del Risorgimento come delle dittature rese o nere– rialzano la testa e si ritrovano concordi nel comune rigetto dello <storicismo liberale> La vittoria di un partito e la sconfitta di un altro, in quest’ottica del disincanto, non si spiegano più con i valori che essi incarnavano ma con la misera condizione umana—la diabolica abilità diplomatica piemontese, l’ingenuità dei pontefici, il tradimento dei generali borbonici etc.—dove tutto è appeso a un filo e quanto è accaduto poteva anche non accadere. A dominare gli eventi sembra ormai essere il caso e alla ragione viene revocato il permesso di circolazione nelle vie tortuose della storia.
Se la convivenza civile si fonda sulla condivisione di una storia comune che, per dirla coi vecchi idealistici, è fatta di momenti dialettici da ricomporre in una sintesi superiore c’è da chiedersi, però, quali tristissimi anni attenderanno le future generazioni, tra il baluginare dei fantasmi neoclericali, gli ammazzapreti dell’integralismo laicista e i totalitari d’ogni colore che inseguono un’impossibile revanche.