I cinema israeliani pagano i danni per il film ‘Jenin, Jenin’
24 Dicembre 2007
Chi ricorda il famoso, quanto finto, “genocidio” di Jenin?
Cinquecento morti ammazzati dagli israeliani secondo la solita propaganda
palestinese? E ci fu anche un regista arabo israeliano, Mohammed Bahkri, che
ebbe un quarto d’ora di celebrità, specie in Italia e in Europa, con un film di
pura propaganda intitolato appunto “Jenin, Jenin”. In esso si dava conto della
falsa versione di quella battaglia che, nell’aprile 2002, ai tempi
dell’operazione “Homat Maghen”, costò la vita in realtà a 57 terroristi
palestinesi e a 23 riservisti dell’Idf. Invece i “pacifinti” alla Luisa
Morgantini ci ricamarono un bel po’ sopra e il film ebbe persino l’onore di
andare a Cannes e a Venezia, nonché di meritarsi persino una puntata di
“Hollywood party” condotta dall’ottimo, ma nel caso “misguided”, Alberto
Crespi.
Ora però, dopo una lunga causa, persa dal regista, dal
produttore e dal distributore di quel film, i cinema
di Tel Aviv e Gerusalemme che proiettarono il film “Jenin Jenin”,
rivelatosi un clamoroso falso per ammissione del regista stesso, hanno già pagato 40 mila shekel ciascuno (circa 8
mila Euro) ai cinque riservisti che avevano querelato l’autore per
diffamazione. Della cosa ne ha dato notizia qualche giorno fa “Agenzia
radicale” in un articolo di Elena Lattes.
All’epoca dei fatti di Jenin,
alcuni ancora oggi lo ricordano, la propaganda palestinese, organizzò una vera
e propria messinscena con finti funerali di vecchie carcasse di animali
riesumate per far credere al mondo che in realtà gli israeliani avessero ucciso
davvero quelle centinaia di innocenti di cui cianciavano i pacifisti
“bruciabandiere”. Questi piccoli trucchi furono presto scoperti, ma l’idea del
massacro perpetrato dall’esercito contro inermi, rimase.
Così Muhammad Bakri, un regista
arabo israeliano, realizzò quasi immediatamente un documentario, in cui si
sosteneva che i soldati avessero deliberatamente colpito civili indifesi e che
le atrocità commesse rientrassero nei crimini di guerra. Cinque riservisti
coinvolti in quei fatti, Ofer Ben-Natan, Doron Keidar, Nir Oshri, Adam Arbiv e
Yonatan Van Kaspel, pur non essendo direttamente nominati nel film, querelarono
tutti per diffamazione, affermando che la pellicola calunniava i loro compagni
e l’intera unità in cui avevano servito. Inoltre chiamarono in causa anche le
cineteche, poiché avevano pubblicizzato il film usando locandine con l’immagine di due di loro: Ofer Ben-Natan e Doron Keidar.
All’inizio del 2005 Bakri confessò
in tribunale di aver usato informazioni sbagliate che gli erano state fornire
da sedicenti testimoni oculari di cui
però non ne aveva controllato l’attendibilità. Bakri aveva anche ammesso di
aver ricevuto dei finanziamenti da parte dell’Anp e in particolare che parte
delle spese per il film era stata coperta da Yasser Abed Rabu, allora ministro
palestinese per la cultura e l’informazione nonché membro del comitato
esecutivo dell’Olp. Che nell’aprile del 2002 era ancora sotto la direzione
dell’allora presidente dell’Anp Yasser Arafat.
Bakri si rivolse anche alla Alta
Corte israeliana che con il suo solito garantismo non ritenne di ritirare la
pellicola. Fatti salvi i diritti di chi si sentiva danneggiato da quel cumulo
di menzogne di chiedere comunque un risarcimento. Adesso quel risarcimento è
arrivato a sentenza e non è solo un episodio simbolico.
E gli avvocati dei riservisti cui
presto potrebbero affiancarsi anche quelli dell’esercito israeliano potrebbero
allargare il raggio della propria citazione per danni anche ai cinema europei e
americani che hanno proiettato quella pellicola di menzogne e anche ai
responsabili dei festival di Cannes e Venezia che con forza hanno dato
risonanza a questa “opera quasi prima”
del regista Bakri. Fino ad allora un Carneade come tanti.