I conservatori inglesi e il futuro della difesa europea

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I conservatori inglesi e il futuro della difesa europea

23 Febbraio 2010

Il partito conservatore (Tory) di David Cameron è dato per favorito alle elezioni parlamentari che si terranno in Gran Bretagna a primavera, con un vantaggio di 6/10 punti percentuali sui laburisti del premier uscente Gordon Brown. Grazie al sistema elettorale maggioritario uninominale in vigore oltre Manica, una vittoria con tale margine garantirebbe ai Tory, molto probabilmente, la maggioranza assoluta dei seggi e quindi il ritorno al governo dopo 12 anni di opposizione.

Cameron e la politica europea
Nel partito conservatore è in corso una riflessione sulla politica estera, di sicurezza e difesa che potrebbe avere risvolti importanti per l’Europa e l’Italia. I Tory sono sempre stati più scettici dei laburisti sull’integrazione europea. Nei mesi scorsi, tuttavia, Cameron ha assunto una posizione relativamente nuova in merito, affermando che non proporrà un referendum abrogativo sul Trattato di Lisbona. Questa accettazione di fatto del rafforzamento dell’integrazione europea lo ha esposto alla critica dell’ala più euro-scettica dello spettro politico britannico, che include lo UK Independence Party e il British National Party. Alle elezioni europee del 2009, questi partiti hanno ottenuto complessivamente il 23% dei voti, esercitando una certa capacità di attrazione sull’elettorato conservatore. Perché dunque Cameron ha scelto sull’Europa una posizione elettoralmente rischiosa alla vigilia delle elezioni politiche?

Le élites britanniche tra ‘800 e ventunesimo secolo
La risposta potrebbe in parte risiedere nell’evoluzione della riflessione politica e strategica delle élites britanniche sulla realtà geopolitica mondiale e sul ruolo della Gran Bretagna. Il successo dell’euro, recentemente anche ai danni della sterlina; l’indebolimento della special relationship con un’America che guarda più al Pacifico che all’Atlantico; l’emergere di potenze di dimensioni continentali come Cina e India; la progressiva necessità di una governance globale per affrontare problemi mondiali come il cambiamento climatico e la crisi economica. Sono gli elementi che hanno fatto breccia nella mentalità di una classe dirigente abituata a vedere nello stato nazione il locus naturale del potere, nella Nato la pietra miliare della sicurezza nazionale, e nell’Ue un male necessario per mantenere aperto il mercato europeo. Una breccia che ha avviato una cauta e pragmatica riflessione, culturale oltre che politica, su quali siano gli strumenti migliori, nazionali e internazionali, per servire gli interessi strategici della Gran Bretagna, e in parte anche sulla articolazione di tali interessi.

In una recente conferenza dello European Security and Defence Forum, svoltasi presso il Think Tank londinese Chatham House, l’importanza dell’Ue, di istituzioni europee come l’Agenzia europea di difesa (Eda) e di capacità civili e militari come quelle dispiegate nelle missioni Pesd, è stata più volte sottolineata da importanti relatori britannici, anche conservatori. Allo stesso tempo, nelle élites d’oltre Manica permane il forte retaggio storico e culturale secondo il quale: a) le forze armate sono uno strumento fondamentale della politica estera; b) quello che conta sono le relazioni intergovernative bilaterali; c) la Francia è l’unica grande potenza militare europea con cui la Gran Bretagna deve trattare. In quest’ottica, si parla oggi a Londra anche di una nuova “entente cordiale” con Parigi su una più stretta cooperazione sulla difesa, incluso un procurement congiunto, per mantenere la capacità britannica di essere una potenza globale anche nel nuovo contesto geopolitico e finanziario.

Sull’avvio di questa riflessione ha ovviamente pesato la crisi economica che, tra gli altri effetti, ha reso meno sostenibile, finanziariamente e politicamente, un bilancio della difesa che vorrebbe mantenere la Gran Bretagna al passo con le maggiori potenze mondiali. Non è un caso che, per la prima volta da molto tempo, il Capo di stato maggiore della Difesa e quello della Marina britannici abbiano parlato apertamente, a mezzo stampa, delle loro divergenti visioni strategiche, probabilmente con l’obiettivo di ottenere più fondi rispettivamente per la contro-guerriglia e per la costruzione di portaerei. Né è un caso che sia oggetto di dibattito il mantenimento del deterrente nucleare britannico e i relativi costi.

I Tory e la prossima Strategic Defence Review
In questo contesto, sia i conservatori che i laburisti hanno promesso una Strategic Defence Review, che ripensi funzioni e obiettivi della politica di difesa britannica, in stretto rapporto con la politica estera e con quella di sicurezza. Considerando che l’ultima operazione del genere ha portato allo dichiarazione di Saint Malo del dicembre 1998, è utile chiedersi se la prossima Review avrà un forte impatto sulla posizione europea della Gran Bretagna. Vi sono segnali che in ambiente conservatore si sta riflettendo anche su questo punto, inclusi gli interventi recentemente pubblicati sul Times.

Ma qual è la visione ufficiale dei Tory al riguardo? Il gruppo di riflessione sulla difesa britannica istituito da Cameron un anno fa ha recentemente pubblicato il suo rapporto. Il documento critica la gestione laburista delle forze armate e si concentra su diversi aspetti elettoralmente rilevanti, quali ad esempio il trattamento dei veterani e dei riservisti. Sulla strategia di difesa il rapporto si limita però a generici impegni sul miglioramento dell’equipaggiamento a disposizione delle forze armate di sua maestà, o su un adeguato incremento degli effettivi in considerazione delle operazioni in corso. Un altro punto rilevante è costituito dalla promessa di istituzionalizzare la Defence Review su base quadriennale sul modello americano. Nessuna idea forte viene tuttavia anticipata sui contenuti della Review proposta da un eventuale prossimo governo Tory. Anche il recente discorso di Cameron sulla sicurezza nazionale, sebbene abbia lanciato idee innovative quali la creazione di un “Consiglio di sicurezza nazionale” volto a coordinare l’azione dei vari dipartimenti coinvolti nella materia, si è concentrato più sul metodo che sui contenuti della politica di sicurezza e difesa.

Una nuova Saint Malo?
La cautela finora mantenuta a livello ufficiale dai conservatori può avere diverse ragioni. Una di queste potrebbe risiedere nella suddetta riflessione sull’opportunità di passare da un approccio rigorosamente nazionale a uno più europeo nella politica di difesa, o meglio bilaterale, sull’asse Londra-Parigi. Tale riflessione potrebbe concludersi con un nulla di fatto, come accaduto negli anni ’80 con i progetti di fregate franco-britanniche, e quindi con il persistere a Londra di una logica strettamente nazionale, fedele alla secolare storia britannica. Oppure potrebbe avere uno sbocco europeo, come avvenuto dodici anni fa a Saint Malo.

Nel secondo caso, oggi il contesto strategico offre l’opportunità di una opzione diversa dalla mera entente cordiale su base bilaterale: il Trattato di Lisbona che prevede e disciplina la cooperazione strutturata permanente nel campo della difesa; c’è l’Eda, peraltro presieduta dalla britannica Ashton, che ha iniziato a sviluppare una visione complessiva delle capacità europee attuali e delle necessità future; ci sono nelle missioni Nato in Afghanistan e Kosovo tanti soldati italiani quanti sono i francesi, a dimostrazione che la Francia non è l’unico paese dell’Europa continentale in grado di condurre robuste operazioni militari all’estero. Un’opportunità che merita di essere colta dai governi dei principali paesi europei, in primis l’Italia, per tutelare l’interesse nazionale ed europeo in un settore delicato come la politica di difesa.

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