I costi della politica e il “modello Toscana”
09 Luglio 2007
La cattiva coscienza ha portato su un piano esclusivamente demagogico il dibattito sui costi della politica. In Toscana, dove l’indignazione popolare sarebbe giustificata se concentrasse i suoi strali sull’apparato clientelare messo su in più di mezzo secolo dal sistema di potere comunista-diessino tra valanghe di assunzioni, dirigenze superpagate, sontuosi incarichi esterni, agenzie varie, società partecipate, Asl politicizzate, sottobosco burocratico e via elencando. Una giungla in cui riesce a sopravvivere – e percepisce stipendi e benefici – solo chi si sottomette agli ordini d’apparato. D’altra parte, i toscani di cosa si possono lamentare? Hanno sempre conferito maggioranze bulgare ai padroni del vapore rosso, che hanno così potuto fare il bello e il cattivo tempo senza il timore di dover mai pagare pegno elettorale. E dove non ci sono né alternanza né ricambio politico il potere si incrosta, si ramifica a dismisura e, inevitabilmente, affievolisce la capacità di buongoverno smarrendo la strada dell’interesse generale nel tentativo di perpetuare se stesso all’infinito. Quello della sinistra in Toscana è un potere fortemente radicato ma logoro, come hanno dimostrato i campanelli d’allarme squillati alle ultime elezioni. E non è casuale che proprio ora i Ds e alcuni dei loro alleati abbiano finto di accorgersi dell’enormità dei costi della politica, che sono imputabili quasi esclusivamente al loro monolitico apparato, mettendosi alla testa dell’orda demagogica che individua il primo intervento «riparatore» nella riduzione del numero dei consiglieri regionali. Insomma, per «purificare» la democrazia dai suoi costi superflui si parte dall’indebolire il principio di rappresentanza, che costituisce il cardine primo di ogni democrazia compiuta. E questo con la scusa di arginare il rischio dell’antipolitica montante evocato qualche settimana fa da D’Alema.
In Toscana il sasso l’hanno lanciato per primi i Comunisti Italiani, che hanno chiesto un ritorno a 50 consiglieri dai 65 attuali, pur riconoscendo che (parole testuali), «quanto ai costi della politica, non sono certo le indennità dei consiglieri regionali a cambiare i bilanci, ma il fatto che tutti guardino a questo provvedimento è perché esso ha assunto un significato simbolico, a causa del discredito che la politica ha nell’opinione pubblica». Tradotto dal politichese: il costo di 15 consiglieri regionali in più è molto meno di un’inezia nel mare magnum del bilancio regionale, ma tagliare quei seggi che hanno consentito all’opposizione di avere finalmente un proprio rappresentante in ogni provincia serve come foglia di fico per dare un contentino al popolo infuriato, continuando magari a dilapidare denaro pubblico per alimentare clientele e consenso in un momento politicamente difficile per la sinistra. Che forse dovrebbe riflettere meglio sul perché tanti loro elettori sono rimasti a casa alle ultime amministrative, e probabilmente scoprirebbe che i motivi di tanto malumore vanno ricercati in un modello di governo locale ormai troppo supponente e autoreferenziale, e dunque lontano anni luce dalle aspettative della gente. I troppi episodi di malgoverno e l’arroganza con cui la sinistra ha continuato a distribuire incarichi e prebende e a riciclare amministratori uscenti come funzionari o consulenti non hanno certo contribuito a dare lustro alla politica regionale, ma se si pensa di lavare la propria cattiva coscienza con un colpo di spugna alla rappresentanza territoriale, allora si compie solo un’operazione mistificatoria e populista. Se da qualche parte si deve iniziare, facciamolo riducendo il numero degli assessorati, eliminiamo l’assessorato al perdono o alla riconciliazione o come si chiama, che serve solo per dare fiato e soldi a un narcisismo pacifista, imbelle e inconcludente, eliminiamo l’incompatibilità tra assessori consiglieri e sfoltiamo con il machete la giungla delle agenzie. E, a fronte di apparati interni elefantiaci come la Regione e Palazzo Vecchio, smettiamola di affidare consulenze a pioggia sulle quali, fortunatamente, la Corte dei Conti sta vigilando con grande attenzione per intervenire quando, sempre più spesso, si configura il danno erariale.
Ma il discorso non può limitarsi alla Regione. Mi chiedo, ad esempio, a cosa serva tenere ancora in piedi le Province, se non a perpetuare una burocrazia altrimenti irriciclabile e una classe politica che non ha colpe ma risulta assolutamente fine a se stessa perché le sue funzioni potrebbero tranquillamente essere assorbite da Regione e Comuni. E come possano ancora sopravvivere i vetusti e anacronistici Consigli di circoscrizione, nati negli anni ’70 in base al principio – sacro alla sinistra – della «partecipazione dal basso» e che ormai non riescono più nemmeno a svolgere il ruolo di sfogatoio popolare, visto che in città come Firenze nascono ogni anno decine di nuovi comitati locali con l’ambizione di interfacciarsi direttamente con il Comune. E allora, se si vogliono affrontare davvero i costi della politica, cerchiamo di farlo lasciando da parte la demagogia. E non dimenticando mai, comunque, che le pulsioni antipolitiche portano quasi sempre a «supplenze» di altri poteri che sfociano inevitabilmente in pericolosi salti nel buio. Spetta alla politica tornare forte, e alla sinistra bulimica scongiurare questa deriva.
Riccardo Mazzoni è direttore de
Il Giornale della Toscana