I dati sulla condizione femminile mostrano un divario tra realtà e principi
08 Marzo 2012
di Mary Sellani
La qualità del dibattito pubblico italiano si è arricchita negli ultimi anni di diagnosi e proposte sempre più approfondite e ambiziose sul cosiddetto “Fattore D”, raggiungendo finalmente standard europei. Quando però si passa dalla teoria alla pratica, si vede come la condizione femminile nel nostro Paese sia meno rosea dei buoni propositi della politica.
Questo divario è lampante soprattutto nel campo dell’occupazione femminile, il cui tasso è di 25 punti sotto la media europea, aggravato, a partire dal 2009, dalla crisi economica. Inoltre, secondo l’ultimo rapporto della Commissione Ue, emerge anche un divario retributivo tra generi nell’Unione, che vede le donne guadagnare in media il 16,5% in meno degli uomini, dove in Italia la percentuale è del 16,8% in meno, e con notevoli disparità tra settori di attività. A ciò si aggiunge che nel decennio 2001-2011 l’Italia è il Paese che è cresciuto meno di tutti nell’Ue, sicuramente a causa di politiche pubbliche poco efficaci. I più penalizzati dalla mancata crescita sono i giovani, i quali hanno perso mezzo milione di posti di lavoro (mentre altri due milioni non studiano e non lavorano) e, appunto, le donne che sono gravate da compiti sempre più insostenibili come le difficoltà a conciliare lavoro e vita privata. Secondo l’Istat, infatti, è a carico delle donne ben il 76,2% dei compiti familiari, mentre più di 800 mila donne sono state licenziate o messe in condizioni di dimettersi a causa di una gravidanza.
Eppure, secondo gli economisti liberali, l’occupazione femminile, nell’economia globale e dei servizi, è uno dei più promettenti volani di crescita, soprattutto per quei Paesi come l’Italia che sono rimasti indietro e dunque possono sfruttarne ancora tutto il potenziale. Basta pensare che le donne italiane si diplomano e si laureano più e meglio degli uomini, ma neppure una su due ha un posto retribuito. Una donna su quattro lascia il lavoro dopo la maternità; su 100 bambini solo 10 trovano posto in un asilo nido, meno di 5 su 100 in uno comunale. Al Sud, poi, la situazione è ancora più grave: una emorragia occupazionale ha colpito le donne meridionali nel triennio 2009-2011 e persiste, oltretutto, il fenomeno del lavoro sommerso, specialmente nel settore dell’agricoltura. Passando al campo della politica, delle professioni e dell’impresa le donne italiane ministro (stando alle ultime due o tre legislature) rappresentano il 21 per cento del totale, le parlamentari non superano il 20 per cento (da ricordare che la popolazione italiana è costituita dal 51,4% di donne). Nelle società quotate in Borsa la presenza femminile nei Consigli di amministrazione arriva al 6,8%; le amministratrici delegate sono appena il 3,8%. Questo significa che nel Paese esiste un gender gap, ovvero un divario tra generi che rende le donne assenti o deboli in tutti i luoghi, nelle aziende pubbliche e private, in politica e diplomazia, nelle università, insomma lì dove si prendono le decisioni che determinano poi la vita di una società e la modernità di uno Stato.
Se questa è la realtà, di fronte all’8 marzo dovremmo smetterla di sbandierare la questione femminile come un affare di donne e sottolineare, piuttosto, specialmente, che si tratta di una questione che riguarda tutti perché ha a che fare, più in generale, con i diritti umani.