I democratici si arrendono all’evidenza: il surge è stato un successo
27 Giugno 2008
Democratici e repubblicani hanno trovato un accordo in Congresso sul finanziamento delle operazioni in Iraq. I fondi richiesti da Bush sono stati così stanziati senza fissare limiti temporali al mantenimento delle truppe americane nel paese. Il compromesso si è concretizzato nella legge, approvata dal Senato il 26 giugno, che stanzia i 162 miliardi di dollari necessari per le operazioni in Iraq chiesti dai repubblicani. Lo stesso provvedimento destina diversi miliardi a spese sociali fortemente volute dai democratici come l’istruzione per i veterani di guerra e i sussidi di disoccupazione. La legge infine vieta al governo americano di istituire basi militari permanenti in Iraq e fissa l’obiettivo della parità tra la spesa sostenuta dagli Stati Uniti per la ricostruzione in Iraq e quella finanziata dal governo iracheno. I repubblicani sono molto soddisfatti della legge, nonostante le concessioni fatte sulla spesa pubblica interna, perché hanno ottenuto i fondi necessari per le operazioni in Iraq fino alla metà del 2009 senza limiti all’impiego delle truppe. La Casa Bianca sostiene pienamente l’accordo e Bush firmerà a breve il provvedimento.
Di fatto con questa legge i democratici hanno rinunciato completamente a fissare un calendario per il ritiro delle truppe americane dall’Iraq. Questa era la principale promessa democratica fatta alla vigilia delle elezioni parlamentari di medio termine del novembre 2006, e solo una promessa è rimasta. Infatti il surge deciso dall’amministrazione Bush all’inizio del 2007 e condotto dal generale David Petraeus ha ottenuto risultati molto positivi, e ha permesso ai repubblicani di sostenere politicamente la continuazione delle operazioni militari. Negli ultimi 16 mesi i livelli di violenza settaria, il numero di vittime civili e militari, la quantità di attacchi alle forze internazionali, sono costantemente diminuiti. Allo stesso tempo le capacità delle forze di sicurezza irachene sono significativamente aumentate. Non a caso maggio 2008 ha registrato il più basso numero di vittime americane dal 2003, 19 soldati, con una diminuzione dell’80% rispetto al maggio del 2007. Il radicale cambiamento della situazione irachena è stato percepito anche dall’opinione pubblica americana, parte della quale oggi pensa che la missione in Iraq possa essere portata a termine con onore, lasciando alla fine delle operazioni un paese stabile e alleato degli Stati Uniti nella lotta al terrorismo.
Di fronte all’impossibilità di superare l’opposizione repubblicana e alla luce dei positivi sviluppi in Iraq, già da gennaio i democratici hanno smesso di chiedere un calendario per il ritiro delle truppe, e si sono concentrati invece sulla denuncia degli alti costi economici della guerra in un periodo di stagnazione economica. Abbandonando progressivamente la propria posizione iniziale, i democratici alla fine hanno concesso i fondi per le operazioni in cambio di un aumento della spesa pubblica interna da poter esibire agli occhi dei propri elettori. Ovviamente i più accesi critici della guerra sono delusi da questa scelta, ed è forte il malumore della componente che voleva un ritiro immediato delle truppe: alla Camera solo 80 deputati democratici hanno votato a favore della legge di finanziamento mentre 155 si sono schierati contro, testimoniando una profonda spaccatura nel partito. Spaccatura poi ricomposta al Senato dove la legge è passata con 92 voti favorevoli e 6 contrari: la camera alta è infatti tradizionalmente meno soggetta alla pressione dell’opinione pubblica, e più propensa ad una politica estera bipartisan e stabilmente legata agli interessi di lungo periodo del paese.
I democratici che in Congresso hanno votato a favore del provvedimento giudicano un successo lo stanziamento di fondi per alcune politiche sociali, e affermano che in ogni caso sarà il prossimo presidente a decidere cosa fare in Iraq. In proposito, il presidente democratico della Commissione finanze della Camera David Obey ha affermato che la legge approvata “dà al prossimo presidente abbastanza tempo per pensare a quello che vuole fare e a come uscire dalla guerra”. L’affermazione risulta abbastanza ambigua rispetto alle categoriche richieste di ritirare immediatamente le truppe fatte in passato, e sembra rispecchiare una maggiore cautela dei democratici nel vincolarsi ad astratti e rapidi piani di ritiro dall’Iraq, che alla luce degli ultimi progressi risultano facilmente tacciabili di disfattismo antipatriottico da parte repubblicana.
Di fatto, dunque, i progressi raggiunti dal surge sul fronte della sicurezza non sono più messi in discussione neanche dai democratici, ed il confronto con i repubblicani si è spostato piuttosto sui tempi e sulle difficoltà del processo di riconciliazione politica in Iraq. Nei giorni scorsi sono stati pubblicati due rapporti sulla situazione irachena, uno preparato dal Dipartimento della difesa e uno dal Government Accountability Office, il centro studi del Congresso. Entrambi i rapporti concordano sulla drastica e costante riduzione dei livelli di violenza verificatasi in tutto l’Iraq negli ultimi 16 mesi. In merito al processo di riconciliazione politica, il primo rapporto considera la legge istitutiva delle province irachene, l’approvazione del bilancio pubblico per il 2008 e l’amnistia per migliaia di militanti sunniti come importanti passi avanti compiuti dalla leadership politica dell’Iraq. Il secondo rapporto ritiene invece che il processo di riconciliazione politica sia quasi fermo, sottolineando l’incompleta applicazione delle suddette leggi e gli innegabili ostacoli alla stabilizzazione del paese.
Se non avverranno gravi cambiamenti in Iraq, Petraeus prevede di ridurre entro metà luglio il numero degli effettivi a 142.000 uomini, ritirando la maggior parte delle truppe del surge che avevano portato nei mesi scorsi il contingente a contare 160.000 soldati. Dopo il ritorno ai livelli precedenti il surge, Petraeus disporrà di 45 giorni per valutare la situazione sul terreno prima di esprimersi a metà settembre su un’eventuale ulteriore diminuzione delle truppe. Nell’ultima audizione in Congresso il generale ha fatto intendere che se i progressi in corso in Iraq si consolideranno proporrà di ridurre ancora il contingente. Dopo di che sarà il nuovo inquilino della Casa Bianca a dover decidere se continuare o meno l’opera di stabilizzazione del paese medio orientale, che oggi non appare più una missione impossibile.