I detenuti non sono mai carne da macello
01 Maggio 2020
Ci sono accadimenti che a volte sfuggono all’attenzione dei media perché raccontano un’Italia migliore, un’Italia in grado di rialzarsi e di rimboccarsi le maniche. In piena emergenza Coronavirus, le buone notizie colpiscono chi si lascia intristire e ridonano speranza a molti.
Veniamo ai fatti. Di recente, i 1.200 detenuti del carcere milanese di Bollate hanno dato vita ad un’iniziativa davvero incredibile. Grazie ad una colletta nata in forma spontanea, hanno raccolto 1.405 euro da donare alla Protezione Civile per fronteggiare il caos derivante dal diffondersi del Covid-19 e ben 250 kg di generi alimentari in favore del Banco Alimentare della Lombardia. Si tratta di un’azione meritoria, preceduta da altre simili verificatesi in qualche altro istituto di pena del nostro Paese nel corso di questi mesi. Sono gesti che nascono da chi vive ogni giorno situazioni di disagio e, per questo, è forse “allenato” a comprendere in misura maggiore la sofferenza altrui. Sono infatti molte le famiglie che, a causa del Coronavirus, hanno perso il lavoro e non sanno di che sfamare i propri figli. Sono tanti i padri di famiglia che fanno ricorso alla Caritas o alle parrocchie di riferimento per tirare a campare. Così, i detenuti di Bollate hanno deciso di darsi da fare: non per far parlare di loro, ma per lasciare un segno tangibile della loro bontà.
Tuttavia, è nota a tutti la situazione in cui versano le carceri italiane: in una cella sono stipate decine di persone con la difficoltà non solo di garantire piccoli spazi di libertà a chi vi risiede, ma anche di ottemperare alle basilari norme igieniche e di sicurezza. Il carcere, si sa, non è un luogo di villeggiatura e la nostra Costituzione pone il reinserimento sociale e lavorativo del detenuto come fine ultimo di chi sconta una pena. Purtroppo, nella maggior parte dei casi, questo non avviene e la reclusione finisce per coincidere con il dolore, l’abbruttimento e infine la morte. Non si contano infatti i detenuti che, facendo ricorso per lo più a farmaci e psicofarmaci, si tolgono la vita tra le sbarre, prassi questa che si è verificata anche nel corso dell’emergenza Coronavirus per protestare contro le norme restrittive che hanno impedito ai carcerati di vedere di persona i propri familiari. Di qui la necessità di compiere un gesto estremo che, nella maggior parte dei casi, vuol dire mettere fine alla propria esistenza.
Già dieci anni fa, sempre da queste colonne, avevamo ravvisato l’esigenza di porre mano ad una compiuta riforma del sistema carcerario che tenesse conto della dignità umana del detenuto e che mirasse al reinserimento nella società di quest’ultimo. Una riforma coraggiosa, ambiziosa e che non concedesse sbavature o libere interpretazioni. Il nostro appello è stato lasciato cadere – o comunque è stato raccolto da pochi – e, a distanza di tempo, ci ritroviamo a porre sul piatto gli stessi problemi. Problemi che, a ben vedere, possono essere adeguatamente affrontati se si parte da un principio: il carcere non è un luogo in cui parcheggiare chi ha sbagliato, ma è un luogo in cui il pentimento, una volta maturato nell’intimo della persona, deve sfociare in altro: in un lavoro, in una occupazione, in un ruolo nuovo nella società.
Fare questo però implica la risoluzione della questione del sovraffollamento carcerario.
Si badi bene: non staremo qui ad ingrassare il coro di chi sostiene che, per svuotare le carceri, bisogna mandare ai domiciliari coloro che si sono macchiati di gravi delitti. Né tantomeno saremo tra quelli che, per fare polemica in un periodo di crisi, danno addosso al governo tanto per tenere vivo il dibattito politico. No, non faremo questo. Diremo piuttosto che non è possibile sostenere situazioni di sovraffollamento perché queste ledono la dignità umana e, con il virus che si diffonde a macchia d’olio, molti detenuti rischieranno di ammalarsi di Coronavirus. Diremo anche che i carcerati, se non inseriti in adeguati percorsi di reinserimento educativo, una volta tornati nella società, se privi di occupazione torneranno a delinquere, magari affiliandosi a questo o a quel clan malavitoso. Questi due scenari – quello del diffondersi nelle carceri del Covid-19 e quello dell’affiliazione ai clan di ex detenuti – non sono scenari utopici, ma rischiano di trasformarsi in realtà tangibile se non si interverrà in maniera opportuna e tempestiva.
E se la libertà resta un bene prezioso – lo sperimentiamo tutti in questi giorni di reclusione in casa – la dignità umana non può essere calpestata. Ciascuno di noi può sbagliare nella vita; il sistema detentivo, accanto alla pena, prevede (almeno sulla carta) spiragli di luce, barlumi di speranza cui dobbiamo appigliarci. I detenuti sono persone, non carne da macello. Si intervenga in fretta o sarà troppo tardi.
Il mondo dietro le sbarre è un mondo piccolo, limitante; guai a non ascoltare la voce di chi, dopo aver sbagliato, si pente e vuole ricominciare.