I dispacci USA irrompono sulla stampa: tanto fumo e sull’Italia niente di nuovo

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I dispacci USA irrompono sulla stampa: tanto fumo e sull’Italia niente di nuovo

29 Novembre 2010

Siti impallati. Documenti inaccessibili. Titoli delle maggiori testate internazionali che cambiano al minuto e agenzie che non smettono di spuntare. Reazioni da parte dei leader politici nazionali interessati, maggiori e minori, che si susseguono stancamente. La lunga notte di Wikileaks e dei dispacci diplomatici statunitensi finiti nel trita-tutto dell’opinione pubblica – grazie ai "giornaloni" come il New York Times, The Guardian, Der Spiegel e El Pais  ‘in combutta’ con Julian Assange e quelli di Wikileaks – porta tanto pettegolezzo diplomatico e qualche notizia (poche). Ma soprattutto giudizi su politici nazionali e internazionali spesso declamatori quanto insignificanti (come nel caso dell’Italia). Cominciamo da casa nostra.

Un’incaricata d’affari dell’ambasciata americana a Roma, Elizabeth Dibble, nei suoi rapporti diretti a Washington definiva il Presidente del Consiglio Berlusconi "un leader politicamente e fisicamente debole" le cui "frequenti lunghe nottate e l’inclinazione ai party lo portano a non riposarsi a sufficienza". Non paga la Dibble etichettava il presidente come un "incapace, vanitoso e inefficace come leader europeo moderno". Pare che ieri ad Arcore il Presidente Berlusconi si sia fatto una gran bella risata quando gli hanno riferito i vari commenti dell’incaricata della Dibble.

Non solo Berlusconi però. Ce n’è per tutti. Sulla Merkel i diplomatici USA di Berlino hanno detto di lei che è una donna "raramente creativa e che non prende rischi". Sarkozy sarebbe "un re nudo", "dalle tendenze politiche autoritarie". Il premier russo Putin "un alpha dog", un maschio dominante. Mentre il presidente russo Medvedev sarebbe "un Robin che sta a un Putin Batman". E sul premier israeliano Netanyahu "un leader raffinato e elegante", che "non mantiene mai le promesse" avrebbe affermato di lui un diplomatico statunitense direttamente parlando con il presidente egiziano Hosni Mubarak (alla faccia del ruolo di mediazione USA nella regione!). C’è da chiedersi se ci sia qualcosa di sostanzioso nelle comunicazioni tra Washington e  la rete diplomatica USA nel resto del mondo. Fortunatamente per la reputazione della diplomazia USA emergono anche dispacci più sostanziosi e meno fondati sul chiacchiericcio politico. 

Italia. In particolare sulla politica estera dell’Italia, a Washington si temevano le "strette relazioni tra Putin e Berlusconi" e le loro implicazioni "energetiche". I regali tra i due leader e il gasdotto Southstream che passa per la Turchia. "Gli eventuali interessi personali del presidente Berlusconi" in Russia, questa la richiesta di Hillary Clinton a quelli dell’ambasciata di Roma. Fa pensare  il comportamento del Dipartimento di Stato sulle relazioni tra Roma e Mosca. Se nel ‘privato’ delle comunicazioni diplomatiche i timori fioccavano, in pubblico gli elogi si sprecavano. Non fosse altro, l’ultimo in termini temporali: quelli a Lisbona per il summit NATO durante il quale Berlusconi ha ricevuto da Obama l’elogio per aver tenuto aperto un canale diplomatico con Mosca.

Ma su l’Italia c’è ancora: l’incontro tra il Ministro Frattini e il Segretario alla Difesa, Robert Gates lo scorso Febbraio a Roma. Durante quella conversazione, Frattini avrebbe avuto modo di manifestare la propria frustrazione per "il doppio gioco turco" tra UE e Iran. Il ministro avrebbe inoltre manifesto al segretario americano la necessità "di coinvolgere nel dossier del nucleare iraniano" anche "l’Arabia Saudita, il Venezuela, la Turchia, il Brasile e l’Egitto". Il ministro affermava inoltre, sempre sull’Iran, che vera "la sfida era portare la Cina dentro". Aggiungendo che in generale, "era critico portare dentro" non solo la Cina, ma anche "l’India per fare pressioni sul governo iraniano senza pesare sulla società civile iraniana". Il ministro Frattini ha fatto sapere ieri dal suo tour diplomatico in Qatar che "niente potrà scalfire le relazioni Italia-USA" e che "le vere ‘vittime’ di questa pubblicazione sono gli Stati Uniti e che l’Italia farà di tutto per aiutare i nostri amici americani".

Golfo Persico. Proprio dal Qatar, dove si trova per l’appunto Frattini, introduce la più scomposta delle storie diplomatiche mondiali emersa da questo rilascio: le incredibili pressioni esercitate degli Stati arabi del Golfo Persico su Washington per un intervento sul "diabolico" Iran e il suo programma nucleare. L’Arabia Saudita e la fiera opposizione del re saudita Abdullah alle mire egemoniche dell’Iran. In un incontro con Mottaki, il capo della diplomazia di Teheran, il re Abdullah avrebbe affermato che l’Iran in quanto paese persiano "non ha diritto di immischiarsi negli affari di noi arabi". Ma anche le esortazioni mediate del re saudita, che mandava a dire agli americani di "tagliare la testa del serpente" iraniano.

E ancora dalla Giordania, le esortazioni del vertice senatoriale, Zeid Rifai, a "smetterla con le sanzioni all’Iran, con la carota e il bastone": l’unica cosa che gli USA possano fare è  "bombardare l’Iran oppure vivere con un Repubblica Islamica nuclearizzata".  Senza contare la spinta senza del Bahrein, de Qatar e degli Emirati Arabi Uniti (EAU) affinché Washington facesse di tutto per impedire che Teheran acquisisse la bomba atomica. E ancora Mubarak e l’Egitto. Il presidente egiziano pare abbia avvertito a più riprese gli iraniani, diffidandoli dall’immischiarsi nella politica interna egiziana, con particolare riferimento ai rapporti tra la Fratellanza Musulmana egiziana e Teheran. “Bugiardi”, questo l’appellativo per i persiani. 

ONU. Raccogliere dati sulla vita privata, numeri telefonici, indirizzi email, password e codici di comunicazione, numeri delle carte di credito, perfino i dati biometrici del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, dei suoi collaboratori, dei dirigenti, consulenti, portaborse all’Onu, leader di organizzazioni internazionali, capi di missioni militari, Ong, e addirittura campioni di Dna. Queste le direttive impartite ai capi missione americani. Richieste che come riconosce il New York Times, fanno sfumare il confine tra "diplomazia e spionaggio".  Oltre che a Palazzo di Vetro, questi stessi ordini "National Humint Collective Directive" (dove Humint è acronimo spionistico di "Human Intelligence"), furono inviati a 33 fra ambasciate e consolati, fra cui quelle a Vienna, Roma, Londra, Parigi, Mosca e sembrano aver coinvolto, a monte, le principali agenzie di intelligence statunitense, fra cui il servizio clandestino della Cia e l’Fbi. 

USA-Karzai. Oltre a descrivere come "un paranoico" il presidente Amid Karzai, i cables diplomatici statunitensi più interessanti riguardano il suo fraellastro. Con Ahmed Wali Karzai, il fratellastro del presidente afgano appunto, i diplomatici USA di Kabul affermano: "dobbiamo avere a che fare (con lui) in quanto numero uno del Provincial Council ma è sotto inteso che è uno corrotto e un trafficante di stupefacenti". Questa la descrizione di Ahmed Wali Karzai fornita dai diplomatici americani, riporta il New York Times citando i documenti di Wikileaks . "Sembra non capire il livello di conoscenza che abbiamo delle sue attività. Dobbiamo monitoralo attentamente e in modo chiaro, inviandogli un messaggio chiaro".

Cina. È stato l’ufficio politico del comitato centrale del Partito comunista cinese a dirigere l’attacco informatico di cui Google è stata vittima in gennaio. Lo riporta il New York Times citando i documenti di Wikileaks. L’attacco a Google era parte di una campagna di sabotaggio coordinata da esperti di sicurezza privati internet reclutati dal governo cinese, e che si sono infiltrati nei computer del governo americano e in quelli degli alleati occidentali sin dal 2002.

Le due Coree. Stando all’ambasciatrice americana a Seul, i sudcoreani hanno fatto pressioni sugli Usa per convincerli che "la cosa giusta da fare" era scommettere sulla "implosione" della Corea del Nord. Per fare questo sono arrivati anche a ipotizzare non meglio precisate "tangenti commerciali" alla Cina per "contribuire ad ammorbidire" le sue preoccupazioni circa l’ipotesi di una Corea riunificata, vista dai cinesi come potenziale alleata americana.

Ripercorriamo per un istante come tutto è incominciato. Bradley Manning, analista del Pentagono e Julian Assange, ex-hacker e fondatore di Wikileaks. Ma come si sfiorano le vite di queste due persone? La trafugazione dei dispacci dal Secret Internet Protocol Router Network (SIPRN), rete di connessione integrata tra il Dipartimento di Stato USA e il Pentagono, fu come detto opera del militare ventiduenne dal viso glabro, analista di intelligence, Bradley Manning. Quest’ultimo lavorava all’epoca del reato imputatogli in una base militare statunitense nei pressi di Baghdad. Dopo aver trafugato il materiale, Manning avrebbe inviato tutto al sito di Wikileaks il quale è dotato di un sistema di upload dei documenti. Ora da sette mesi Manning è in isolamento in un carcere militare statunitense. Sarà giudicato all’inizio del prossimo anno da una Corte marziale con l’accusa di aver scaricato illegalmente materiale classificato dal SIPRN, rischiando di essere condannato ad una pena di 56anni. Per sua stessa ammissione (così come emerge da una chat avuta con Adrian Lamo, suo ‘amico’-hacker e poi suo stesso delatore?) Manning ha avuto accesso al SIPRN per 14 ore al giorno, sette giorni su sette, per un lasso di tempo di otto-nove mesi.

Un lungo tempo per fare danno, che rischia di mettere il giovane in un mare di guai giudiziari. Il giovane analista di intelligence infatti non è solo accusato dalle autorità militari di aver trafugato e trasferito i c.d. Statelogs a Wikileaks, ma è sospettato altresì di essere la stessa talpa che ha passato al network di Julian Assange i c.d. Warlogs su Iraq e Afghanistan, ovvero quelle centinaia di migliaia di documenti di cronaca operativa bellico-politica statunitense sui due teatri di guerra, ormai da qualche mese in linea. Una bravata, quella di Manning (e Lamo?), che con la complicità di Julian Assange e dei quattro ”giornaloni” transatlantici, rischia di mandare in soffitta la diplomazia internazionale così come la abbiamo conosciuta sino a ieri. 

Quanto a Julian Assange, è latitante da settimane, inseguito da un mandato di cattura spiccato dall’interpol per un caso di molestie sessuali durante una partouse svedese. E’ ricomparso ieri in video messaggio in Giordania, pur non essendovi fisicamente. Nel video Assange ha affermato di essere vittima di una campagna di diffamazione e di essere braccato dalla CIA, i servizi segreti statunitensi. Pare inoltre che all’australiano fondatore di Wikileaks, proprio il governo di Camberra abbia negato, per bocca del ministro della giustizia Robert McClilland, la possibilità di asilo, non escludendo in futuro la possibilità del ritiro della cittadinanza per lo stesso Assange. 

Il Pentagono, da par sua, condanna la diffusione "sconsiderata" dei documenti Wikileaks e annuncia di aver preso iniziative per aumentare la sicurezza delle reti militari americane. "Il Dipartimento della Difesa ha preso una serie di misure per prevenire che tali incidenti si ripetano nel futuro" afferma Bryan Whitman, portavoce del Pentagono, riferendosi alle misure prese per prevenire il download di dati segreti. Le rivelazioni potrebbero già aver incrinato la stabilità delle relazioni inter-alleate occidentali e aver far saltare fragili equilibri internazionali. In futuro si vedrà, sperando che il danno sia minore rispetto alla misura gigantesca che i più affermano. Ma andiamo per ordine: Manning è in gattabuia. E se Assange è colpevole di qualche reato, lo si conduca in giustizia.