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I Ds tra banche e straccioni
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20 Giugno 2007
di redazione
Nel
corso della sua appassionata autodifesa dagli schermi di Ballarò, Massimo
D’Alema ha avuto parole buone per tutti: per Giovanni Consorte, che non è Al
Capone, per il suo segretario Piero Fassino, che non c’era niente di male se
andava a trovare il governatore della Banca d’Italia, persino per Silvio
Berlusconi, che non è da condannare per aver parlato con Fiorani (non è la
stessa cosa, ma prendiamo atto delle buone intenzioni).
E’
normale – spiega il vicepremier – che la politica si occupi di queste cose,
“accade in tutto il mondo che la classe dirigente politica e quella
imprenditoriale facciano squadra per l’interesse del Paese”. “Noi – dice ancora
– abbiamo guardato con grande favore a quel progetto: creare una grande banca
vicina al movimento cooperativo lo ritenevamo utile all’economia italiana”.
D’Alema
ha fatto il tifo per Unipol, e lo ammette senza remore. Poi, a testimonianza
del legittimo interessamento della politica per le questioni del mercato,
aggiunge d’esser stato molto contento anche della nascita di una grande banca
come Intesa-sanPaolo. Il messaggio è chiaro: solo Romano Prodi può farsi gli affari
suoi?
Del
resto, che i Ds avessero deciso di abbandonare definitivamente la vocazione
proletaria del vecchio Pci lo si era già capito quando il tesoriere Ugo
Sposetti, parlando col Corriere della Sera delle intercettazioni che
coinvolgevano i leader della Quercia, s’era chiesto: “Con chi dovremmo parlare?
Con chi dovrei parlare, io? Con gli straccioni?”. Lui che