I gendarmi della memoria negano la verità sulla guerra civile italiana
14 Ottobre 2007
Chi sono “i gendarmi della memoria”? A quale categoria dello spirito appartengono coloro che sono diventati, senza alcun merito, i protagonisti, sia pure al negativo, dell’ultimo libro (dall’omonimo titolo) di Giampaolo Pansa? Lo scrittore tara le loro connotazioni pensando a Giorgio Bocca, “l’uomo di Cuneo”. E enumera quattro caratteristiche comportamentali di questi indignati speciali che insorgono ogni qual volta il totem della Resistenza viene analizzato senza tabù. La prima: “se qualcuno osa criticare l’agiografia resistenziale, devi subito falsificare quello che dice. E sostenere che il perfido revisionista nega il significato politico, etico e di riscatto nazionale dell’intera Resistenza”. Anche se ciò non è palesemente vero.
La seconda: “..se poi lo stesso figuro sostiene di volere una storia completa della resistenza, senza omissioni e senza bugie, al riparo dalle faziosità politiche, l’accusa conto di lui va estesa. Sino a imputargli reati che non si è mai sognato di compiere. Per esempio, quello di mettere sullo stesso piano la causa dei fascisti e quella dei partigiani.”
La terza: “in questo modo il revisionista si trasforma nel rovescista, anzi in un vero e proprio negazionista, infame quanto chi nega l’Olocausto..”
La quarta:”..il negazionista va messo a tacere con norme di legge apposite, ossia con il silenzio obbligato e la galera.”
Di Giampaolo Pansa, tutto si può dire tranne che non abbia avuto il coraggio di ridiscutersi quando ormai aveva superato da un pezzo i settanta anni. Giornalista di successo e scrittore, in fondo chi glielo faceva fare a mettersi contro tutto l’ambiente della sinistra politically correct dentro cui aveva svolto la propria impressionante carriera?
Eppure oggi, dopo tre o quattro libri come “Il sangue dei vinti”, “I figli dell’aquila” e “La grande bugia”, Pansa è diventato un reietto.
Come un Irving o un Faurisson qualsiasi. Se telefoni per chiedere informazioni su di lui a “L’Espresso”, giornale di cui è stato un rimpianto vicedirettore e dove ancora tiene una delle rubriche più lette, si affrettano a liquidarti con freddezza dicendo che “di lui non sappiamo niente”. E se provi a evocare il suo nome in un salotto di quelli che un tempo lo accoglievano ti senti addosso gli sguardi delle persone che ti squadrano come uno entrato senza prima pulirsi le scarpe.
Sì, perché ormai Pansa è diventato “l’amico dei repubblichini”, “il calunniatore della resistenza”, “il Giuda dei partigiani”, insomma uno cui tappare la bocca. Con i soliti metodi para brigatisti ereditati dai giovani di oggi dei centri sociali e dai loro aizzatori dentro e fuori da Rifondazione comunista.
Quando la sera del 16 ottobre 2006 a Reggio Emilia quelli che Pansa chiama i “gendarmi della memoria” tentarono di impedirgli la prima presentazione pubblica di un suo libro sulla guerra civile, si trattava de “La grande bugia”, lo stesso autore pensò a un fenomeno isolato. Da giudicare dal lato positivo: “mi farà un po’ di pubblicità gratis”. Poi però pochi giorni dopo, la stessa cosa si è ripetuta a Bassano del Grappa e il passaparola di boicottare Pansa è proseguito anche negli incontri successivi, tanto che il giornalista fu costretto ad avvalersi della protezione della polizia.
E le amministrazioni diessine di Emilia Romagna, Toscana e Umbria cominciarono a boicottare furbescamente, senza sbilanciarsi, le successive presentazioni. Tanto che lo stesso Pansa per evitare problemi di ordine pubblico ne annullò non poche.
Il rifiuto rabbioso di rileggere la storia della Resistenza italiana e di guardare con un minimo di umanità al destino dei fascisti sconfitti ha accompagnato il successo dei libri di Pansa. E il paradosso è che coloro che lo tacciano di revisionismo sono diventati ormai i peggiori negazionisti della verità e dell’onestà intellettuale che dovrebbe caratterizzare il lavoro di chi ha pretese di farsi chiamare “storico”.
Tutta la prima parte del libro intitolato e dedicato con sarcasmo a questi “gendarmi della memoria” è una tristissima rilettura di un anno di grandi bugie che alcuni cattivi maestri del giornalismo, della critica e della storiografia italiana hanno indirizzato contro Pansa, reo di avere raccolto nei propri libri testimonianze serie ed attendibili, e soprattutto chiare, sull’altra faccia della lotta partigiana di liberazione. Senza per questo avere mai voluto mettere in dubbio il valore dell’anti fascismo e il disvalore del nazi fascismo.
Dalla malafede di tutti i suoi critici, da Giorgio Bocca in giù fino ai critici de”L’Unità” e di “liberazione” o de “il manifesto”, emerge il dato più inquietante di tutta questa acredine anti revisionista: la coda di paglia di chi ancora oggi vuole coprire i delitti di gente come il comandante Giacca, il Toffanin della strage di Porzus, o il fatto ormai acclarato che nell’immediato dopoguerra il PCI di Togliatti si teneva pronto a fomentare un supplemento di guerra civile che aveva lo scopo di portare anche l’Italia nell’orbita della cosiddetta cortina di ferro. Per non parlare dell’ira dei tanti partigiani torturatori passati senza soluzione di continuità da analogo mestiere svolto durante il fascismo. E’ il solito problema mai affrontato dei cosiddetti “fascisti rossi”, coloro a cui Togliatti permise, senza neanche un piccolo purgatorio, di cambiare casacca a cavallo dell’8 settembre 1943, ma anche molto dopo, permettendo loro di ingrossare le fila partigiane e spesso di svolgere quei lavori sporchi in cui i capi del Pci non volevano figurare. Basta d’altronde vedere chi è che urla di più oggi contro Pansa, cioè il suo ex amico Giorgio Bocca. Uno che a 25 anni aveva firmato il manifesto della razza.
E basta vedere i sordidi scopi che spesso stavano dietro alcuni efferati delitti di partigiani del dopoguerra. Uno per tutti, raccontato in maniera quasi commovente nel libro in questione, riguarda la morte e il dileggio del cadavere di Giuseppe Sidoli cioè il direttore amministrativo del carcere dei Servi a Reggio Emilia. Un carcere tristemente noto per torture e deportazioni che però non potevano venire imputate a un uomo che era praticamente solo un burocrate. Che aveva l’unica colpa di avere visto come alcuni partigiani imprigionati avessero parlato tradendo i propri compagni dal carcere. E forse a determinare l’uccisione di quest’uomo che come un capro espiatorio pagò invece le colpe dei veri torturatori fu la sua rabbia nell’essere stato testimone del repentino passaggio di tanti veri torturatori fascisti nelle file dei partigiani nel dopo 8 settembre 1943.
E chi uccideva si comportava come Cosa Nostra: sasso in bocca a chi parla o minaccia di farlo. Altre storie e testimonianze scovate da Pansa fanno riferimento ad attività criminali come sequestri, stupri ed estorsioni che i partigiani comunisti del cosiddetto triangolo della morte nell’Emilia sono stati liberi di fare fino al 1948.
Ma queste non sono storie che certi italiani neanche oggi a distanza di oltre mezzo secolo amano sentire. Pansa scrivendone è diventato oggettivamente un nemico del popolo e quelli che ne disturbano le presentazioni librarie non fanno niente per nascondere i propri veri intenti squadristi, infatti in più di un’occasione si sono presentati con cartelli con sopra scritto “uccidere un fascista non è reato” o peggio ancora “triangolo rosso? Nessun rimorso”.
La “pancia” della sinistra italiana è fatta di questa gente, mentre la “testa” è per lo più composta, come ci insegna Giampaolo Pansa, di vili e opportunisti burocrati che preferiscono non avere problemi di ordine pubblico e politici con agitatori e agitati della sinistra antagonista o radicale che dir si voglia. La versione in salsa comunista di certi personaggi un bel po’ vigliacchi già visti
nei film di Alberto Sordi prima maniera.