I giornalisti italiani e Trump, se continua così butto il tesserino

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I giornalisti italiani e Trump, se continua così butto il tesserino

01 Febbraio 2017

Premesso che se uno ci crede è liberissimo di giudicare il presidente Trump un pericoloso razzista omofobo, fa veramente venire voglia di stracciare l’ormai esausta tessera di giornalista sentire i riveriti esperti della categoria, ridotti alla stregua di opinionisti, discettare della presidenza Trump in prima serata tv.

Il motivo è presto detto, i nostri eroi sanno poco del trumpismo, essendo stati presi alla sprovvista dalla vittoria del Don mentre scrivevano dei fatti loro, fidandosi della marea montante che aveva già incoronato Hillary. Le cose sono andate diversamente, la Clinton ha perso, Obama se n’è andato, e adesso lorsignori si svegliano e restano sconvolti dal #muslimban, una proposta che Trump fa da quando è sceso in campo, è passato più di un anno, e che, essendo stato eletto anche per questo motivo dagli americani (contenere o bloccare l’immigrazione clandestina e dai paesi sponsor del terrorismo), adesso mette in pratica con un ordine presidenziale.

Ignoranza del programma elettorale di Trump a parte, quello che però lascia davvero stupiti, pensando a quanto ci si riempie la bocca parlando dell’importanza di una libera stampa nella formazione di una pubblica opinione consapevole, è vedere che poi alla fine, puntualmente, di qualsiasi cosa si parli intorno a Trump si finisce sempre per ricadere nella “legge di Godwin”. La legge di Godwin è una estensione della cosiddetta “reductio ad hitlerum”, ovvero, quando vieni messo all’angolo perché hai toppato con delle argomentazioni smentite dai fatti (per esempio dire che “Trump è un omofobo”, anche se ieri il presidente ha confermato le disposizioni obamiane a tutela LGBT nei pubblici uffici), allora buttala in caciara paragonando il Trump di turno al capo del nazismo (vale anche per Wilders, Le Pen, Hofer, ma anche Berlusconi, Grillo, eccetera). 

La legge di Godwin lo ha dimostrato scientificamente: nelle discussioni su Internet prima o poi qualcuno per chiudere la discussione tirerà fuori l’accusa di nazismo contro i suoi interlocutori, cosa che, nella stragrande maggioranza dei casi, dimostra solo la pochezza e la debolezza delle ragioni di costoro. Ieri sera a Di Martedì non solo abbiamo sentito fare questi accostamenti ma si è addirittura appurato che l’attentatore della moschea in Quebec era un “pericoloso trumpista”, notizia dal sapore un po’ bufalesco, messa in giro nei giorni scorsi da un’analista che ha spiegato come il killer avesse cliccato mi piace sulla fan page del Don e di Marine Le Pen. E quindi? Siccome un assassino ha messo mi piace sulla pagina di Trump chiunque altro ci clicca è un potenziale assassino di islamici? O c’è qualche collegamento con la strage in Canada?

Ragionamenti del genere sono del tutto illogici – come dire che anche Ghandi era un nazista perché vegetariano come Hitler – ma siccome agli opinionisti con tessera di giornalista professionista non interessa la logica bensì lo share, allora eccoli lanciarsi nell’equazione più semplice, ma anche più sbagliata di tutte, Trump come Hitler, il top delle fake news in circolazione. Basterebbe ricordare anche in questo caso che il nuovo giudice della Corte suprema indicato da Trump, Gorsuch, ha scritto un libro contro l’eutanasia, pratica che, stavolta lo ricordiamo noi il nazismo, era particolarmente apprezzata da Hitler e i suoi.