I guai che sta passando il Pd se li è cercati
19 Dicembre 2008
Naturalmente è doverosa la cristiana compassione per le persone che patiscono un qualunque male, che sia fisico, morale o anche soltanto sociale. Quella compassione che esorta a visitare i carcerati e a consolare gli afflitti, ma certo non a condividerne la sorte. Ciò detto, mentirei se dicessi anche che mi dispiace per i guai che sta passando il Partito Democratico.
Così, anzitutto forse la finiscono con l’albagia da primi della classe, con quell’atteggiamento da sopracciò, sempre con il ditino alzato a fare la morale a tutti dalle pretese altezze della loro superiorità antropologica. Può darsi che finalmente le «lezioni della storia» insegnino loro qualcosa, anche se le ragioni per dubitarne non mancano. Ed invero, già la gentile signora Bindi sembra dar ragione a chi dubita, continuando a straparlare della «diversità» del loro elettorato – che si scandalizza delle malefatte dei suoi rappresentanti e non va a votare – rispetto a quello di destra, che invece si compiace delle malefatte dei suoi politici e ne ricava motivazioni per votarli con rinnovato entusiasmo. È vero che quos (quam, nella fattispecie) Deus perdere vult, dementat. È pure vero che la signora Bindi ha (stra) parlato prima dei fatti napoletani. Ma è soprattutto vero che chi non ha capito lezioni della storia ben più alte e non coglie questioni morali di ben altro peso, e continua a dirsi di sinistra – nonostante i fallimenti di tutte le politiche socialiste, ovunque e sempre –, e soprattutto a trafficare o a voler trafficare con comunisti ex, post o neo che siano – nonostante la natura criminale di quell’ideologia e di quel fenomeno storico, che è sprofondato in oceani di sangue e fango –, ben difficilmente potrà capire quest’altra lezione.
Che non consiste soltanto nell’acquisire ovviamente consapevolezza del fatto che anche a sinistra ci sono i «buoni» e i «cattivi», e che spesso i buoni non siano tali sempre e integralmente, e così i cattivi. Questo è il normale realismo che dovrebbe indurre a diffidare di chiunque, a cominciare da se stessi, e a non erigere categorie di santi e di dannati a prescindere. C’è dell’altro, e di molto più importante.
Che la straordinaria coincidenza temporale tra le iniziative della magistratura contro i pubblici amministratori pieddini un po’ in tutta Italia sia un caso, è possibile. Ma è dello stesso genere di possibilità che vuole che la meraviglia dell’universo, e nell’universo della vita, e nella vita dell’organismo e della ragione umana, siano frutto del caso. Insomma, solo chi crede che tutto quello che siamo, viviamo e vediamo, e lo stesso fatto che ne siamo coscienti, sia «per caso», può pensare che altrettanto «per caso» a Firenze, a Pescara, a Napoli, a Potenza, a Catanzaro siano stati disposti simultaneamente provvedimenti giudiziari contro le amministrazioni pieddine. E comunque, senza entrare in nessun merito, va detto che ancora una volta è la magistratura a sconvolgere un assetto politico, a «coventrizzare», o a tentare di farlo, un partito politico.
Può darsi che la cosa abbia fondamento, ma è certo che il modo d’intervenire e soprattutto la straordinaria contemporaneità dell’intervento rendono manifesto che si tratta d’altro, e che i singoli episodi di malcostume e di malaffare siano solo, se non un pretesto (non voglio dire che le inchieste siano pretestuose), un’occasione.
Un’occasione per colpire «compagni che sbagliano» perché hanno tradito la rivoluzione e si sono accomodati con il nemico? Un’occasione per riaffermare il protagonismo di un potere che sempre più si ritiene supremo custode dell’ortodossia costituzionale, e guardiano di una legalità sostanziale e del buon costume politico, anziché mero applicatore della legge da altri posta, come se, secondo l’insegnamento di un giurista come Carl Schmitt, «sposata l’idea di una sapienza professionale vincolante», le Corti italiane, ma soprattutto i PM, si siano trasformati in una versione italica del «judge made law», di più, del «judge makes politics»? Un’occasione per mutare la leadership dell’anti-berlusconismo militante, aiutando un ex (ex?) collega a conquistarla?
Forse un po’ di tutto questo. O forse è solo un caso. Ma in ogni caso, la debolezza della politica non è più sostenibile. Così come non è sostenibile la sua mancanza di convinzione di sé, del proprio ruolo e anche dei propri limiti, nonché la sua neghittosità a darsi un orizzonte, ad essere ispirata da una precisa idea dell’uomo e del bene comune. E una politica debole, una politica che non decide e non si assume le proprie responsabilità, è ostaggio di poteri e forze improprie, e non svolge il suo compito al servizio della persona e della società. Dell’ordine fa parte anche la giusta gerarchia tra i poteri e le pubbliche funzioni, e il fatto che nessuno di essi prevarichi o usurpi ciò che è di competenza altrui.
Non abbiamo osteggiato la «via giudiziaria al socialismo» per intraprendere una via giudiziaria opposta: un errore mutato di segno non cessa di esser tale. Anche perché – come la vicenda del PD conferma più che insegnare – chi di giustizia(lismo) ferisce, prima o poi di giustizia(lismo) perisce.