I Kennedy spiazzano Hillary e puntano su Obama

Banner Occidentale
Banner Occidentale
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

I Kennedy spiazzano Hillary e puntano su Obama

I Kennedy spiazzano Hillary e puntano su Obama

29 Gennaio 2008

Chi – fuori degli Stati
Uniti – si interessa di “americanate” aspetta con un’ansia voyeristica le
lunghissime elezioni presidenziali per cercare di prendere il polso di quel
paese così lontano e così vicino. 
L’orgia mediatica, fatta di discorsi, sondaggi, gossip di vario genere è
il pasto quotidiano di quel pubblico di fanatici (tra cui il sottoscritto) che,
non senza presunzione, è sempre convinto di aver capito tutto, e prima degli
altri, di quello che avviene in quell’universo che si estende dal Potomac alle Montagne
rocciose.  Ogni tanto – giusto con tono
di pietosa sufficienza – ci si avventura a fare paragoni tra gli eventi di
questa patria “ideale”, con quelli – ovviamente più miseri – del proprio paese.

Neanche da dire che il
risultato è desolante per la patria “legale”, soprattutto se essa è l’Italia.
Nonostante l’italica ubris nei
confronti del mondo americano il patetico scimmiottare la liturgia politica
d’oltreoceano, con l’innaturale introduzione dello strumento delle primarie,
dimostra l’inconsistenza dell’idea del confronto politico nel Bel Paese. Vi è
da dire che a questi “integralisti” degli Stati Uniti manca, spesso, la giusta
prospettiva per vedere e studiare la repubblica stellata. E’ forse necessario
rammentare le feconde parole di Baudrillard che, in L’America, ricorda che “per vedere e capire l’America, bisogna aver
sentito, almeno per un istante, nella giungla di una downtown, nel Painted Desert
o nella curva di una freeway, che
l’Europa è sparita”.

 A questo variegato manipolo di ‘fan’ del mondo
politico americano la discesa in campo della famiglia Kennedy a fianco del senatore
Obama non è certo passata inosservata. Anche se già si gonfiano le fila di
coloro che dicono: “Io lo sapevo!”, giusto perché un appassionato di cose a
stelle e strisce non può mai essere preso in contropiede, la notizia è di
quelle che lasciano il segno e che determinano una frattura all’interno di un continuum politico di oltre 16 anni.

Già nel 1992 il potente clan dei Kennedy, nella persona di
Edward (detto Ted), senatore del Massachussetts, e capostipite della dinastia,
aveva appoggiato il giovane, e sconosciuto, 
governatore dell’Arkansas William Jefferson Clinton, nella corsa alla
Casa Bianca. Questa era diventata la sorte dei Kennedy. Se negli anni Sessanta,
grazie al volitivo capostipite Joseph, la famiglia sembrava destinata ad
esprimere candidati alla carica presidenziale (JFK, il presidente assassinato a
Dallas ed il fratello minore Robert, anch’egli ucciso a Los Angeles nel 1968,
mentre stava per diventare il competitor democratico
per la corsa alla Casa Bianca), l’incidente automobilistico di Chappaquiduick,
nel quale annegò un’amica di Ted, mise fine all’ambizione dei Kennedy a
diventare inquilini del 1600 Pensylvania Avenue.  Da allora, nonostante alcuni patetici
tentativi di tornare alla ribalta nazionale, Edward Moore Kennedy si accontentò
di diventare il “satrapo” democratico del New England ed un grande elettore per
i candidati presidenziali del partito dell’asinello.

Il sostegno del clan
alla candidatura di Clinton rientrava nella tradizione di famiglia. Bill, nel
1992 era il più giovane candidato alle presidenziali nella storia degli Stati
Uniti. Non solo.  Egli rappresentava un
misto di ingenuità, di freschezza e di scaltro cinismo: Clinton era il kanon della scuola kennediana. Mediante
il sostegno al Bill nazionale la Famiglia traeva nuova linfa, cercando di
riprodurre la figura di John  Fitzgerald.
Se i Kennedy si erano affermati, sul palcoscenico nazionale, come portatori di
una visione “giovane”, idealista, ma – in fondo – conservatrice dell’America,
il ciuffo brizzolato di Clinton, incarnava la riproposizione della figura di
JFK (comprese le intemperanze sessuali). La collaborazione tra il clan, che
garantiva il sostegno democratico del New England ed il presidente, nato nella grande
provincia americana, fu continua. Dopo che l’uomo di Hope lasciò la Casa
Bianca, la famiglia non fu contraria alla candidatura dell’invadente e poco
nello stile Kennedy (sottilmente, ma tenacemente maschilista), moglie Hillary
Rodham alla carica di senatore di New York. Nella Grande Mela, oggetto estraneo
a chi passa l’estate a Cap Code,  i
Kennedy hanno un potere relativo, ma un’esternazione negativa non avrebbe giovato
alla candidata. Nonostante ciò il prestigio che Bill aveva assunto negli otto
anni di presidenza, grazie anche ad un sapiente e scrupoloso uso della macchina
mediatica, rendeva la moglie un candidato imbattibile.

Gioco forza ha voluto
che la dynasty di Hyannis Port
dovesse dare il nulla osta al nuovo candidato democratico. In gioco era la
popolarità medesima della famiglia, che non poteva permettersi di salire su di
un ‘carro perdente’. Il prestigio dei Kennedy risiede nell’idea che essi
incarnano una immagine giovane e vincente, anche se da decenni sono
politicamente giurassici e rappresentano i poteri forti della costa nord
occidentale dell’Unione. Il silenzio del clan alla candidatura di Hillary
Rodham Clinton alla Casa Bianca è parso agli osservatori (nessuno escluso) ed
allo Stato Maggiore democratico come l’implicito sostegno alla discussa moglie
del 42° Presidente dell’Unione.

Poi, come un colpo di
teatro, il 26 gennaio 2008, dopo la scontata sconfitta della senatrice Clinton
contro Barak Obama in South Carolina la figlia maggiore di JFK, la 51enne
Caroline, seguita il giorno dopo dallo zio Ted, si schiera a fianco del
candidato afro-americano. La retorica della Famiglia, alla quale è più
sensibile la stampa europea che quella statunitense, enfatizza il messaggio di ‘cambiamento’
dell’unico senatore afro-americano del Congresso americano. Egli, agli occhi
del pubblico, deve apparire come il nuovo JFK, mentre la senatrice Rodham
Clinton pare incarnare gli interessi dei ‘poteri forti’. Che la Hillary ‘de noantri’
non rappresenti il nuovo, e che dietro di lei si muova compatta la potente
lobby degli avvocati, è cosa tanto risaputa da risultare ovvia. Ella, se da un
lato, è figlia di un vetero femminismo di maniera, per il quale donna è bello,
comunque sia, dall’altro si è rivelata una persona ossessivamente attaccata al
potere, tanto da presentarsi alle urne, non con il proprio nome, ma con quello,
vincente, del marito.  Non è un caso che,
quando si presenta di persona, ella non riesca a ‘bucare’ lo scetticismo
dell’elettorato e che le sue azioni risultano in ascesa solo quando si muove in
suo soccorso il ‘vecchio’, ed un po’ bolso, marito.

Sotto molti punti di
vista appare evidente che Obama rappresenti il ‘nuovo’ nei confronti
dell’arrivista senatrice di New York, ancor più conservatrice di tutti gli
altri candidati, compresi quelli del Great Old Party. Le motivazioni che hanno,
inaspettatamente, mosso la famiglia Kennedy a sostenere Obama sono, però, meno
nobili. In quasi cinquant’anni questi figli e nipoti di immigranti irlandesi si
sono strutturati come una laica dinastia in un paese repubblicano fino alle
ossa. I Kennedy non sono solo un centro di potere, ma un’idea fatta famiglia. Questo
fa del clan una ‘dinastia’. Essa ha i suoi riti e le sue liturgie, consolidate
nel tempo. Se la Rodham Clinton entrasse da vincitrice alla Casa Bianca, la
sola successione – anche se con i metodi della rappresentanza –   al più famoso marito farebbe dei Clinton una
nuova dinastia della galassia democratica che, oscurerebbe, in modo
irreversibile le cariatidi di Cap Code.

Non si tratta solo di
scegliere un candidato alle elezioni presidenziali. Sia per i Kennedy, sia per
i Clinton in gioco vi è molto di più. Vi è la sopravvivenza stessa. Essa non è
certamente fisica, ma ideale e morale. Sul piatto vi è l’immagine ed il carisma
di due dinastie: una storicizzata ed una ‘in progress’. Come ovvio due dinastie
non possono dividersi lo stesso territorio materiale ed ideale. Solo una può
sopravvivere. Diverso è il campo repubblicano. Esso, storicamente, non ha mai
avuto famiglie egemoni, anche per il basso profilo ideologico del GOP. La
leadership dei Bush che hanno dato all’Unione due governatori e due presidenti
(più di chiunque altro nella storia americana) pur senza far diventare la
famiglia una dinastia, rappresenta una pax senza possibilità di replica. E’ nel
mondo liberal che si è affermata in
modo forte l’idea di dinastia, grazie ad una strategia, attentamente studiata
dalla fine degli anni Trenta. Il vecchio Jack aveva il senso dinastico e lo ha
trasmesso hai suoi numerosi figli e nipoti. Però il tempo ha logorato
l’immagine e la legittimità della famiglia. Se i Kennedy vogliono conservare la
cinquantennale leadership nel partito
dell’asinello  devono, a costo di perdere
la battaglia definitiva (chi non ricorda il film “The last Hurrah!” di John
Ford con il grande Spencer Tracy), sfidare la nuova dinastia rampante degli
anni Novanta dei Clinton. Quale sarà il verdetto? Sicuramente non sarà la
dubbia simpatia di due clan a prevalere. La sentenza è nel risultato del Super
Tuesday del 5 febbraio.