I leader europei devono arginare lo strapotere delle agenzie di rating

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I leader europei devono arginare lo strapotere delle agenzie di rating

17 Gennaio 2012

La situazione economica europea è drammatica, ha dichiarato senza usare mezzi termini il presidente della BCE Draghi. L’affermazione è stata rilasciata dopo che l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha declassato il rating dell’European Financial Stability Facility (Efsf), il cosiddetto “fondo salva stati”, da «AAA» a «AA+». Una mossa che molti economisti hanno interpretato come un giudizio negativo dato sull’intera Unione Europea. Un declassamento che ha seguito l’ondata dei declassamenti dei singoli paesi europei, tra i quali l’Italia, avvenuta la settimana scorsa. Una sequenza di giudizi negativi sull’operato dei singoli governi e della governance europea nel suo complesso che prosegue incessante ormai dal 2010 e che sembra non volersi arrestare mai.

Viene da chiedersi come sia possibile che, con tutte le manovre finanziarie lacrime e sangue fatte, l’incremento delle tasse, il taglio draconiano della spesa pubblica e il cambio dei governi queste agenzie continuino imperterrite nella loro opera di condanna delle finanze pubbliche europee. Il giudizio di questi istituti è davvero la sintesi infallibile della bontà economica e finanziaria delle nazioni oppure è uno strumento in grado di esacerbare, più o meno volontariamente, la crisi? Guardiamo i fatti. Ogni volta che le agenzie di rating rilasciano il loro giudizio miliardi di dollari si spostano sui mercati internazionali e i capitali di proprietà di fondi d’investimento, fondi pensioni ed hedge funds si dirigono da una o dall’altra parte del mondo per lucrare lauti guadagni. Chi è in grado di venire a conoscenza in anticipo delle decisioni di queste società è in grado di speculare al rialzo o al ribasso sull’andamento dell’economia delle nazioni, traendo profitto in ogni caso dalle disgrazie economiche altrui.

Che dietro le principali agenzie di rating ci siano i più importanti magnati della finanza americana è ormai cosa nota. Basta dare una rapida occhiata alla composizione del capitale azionario di queste società per vedere come dietro Standard & Poor’s ci siano investitori privati del calibro di Capital World Investors, State Street, Vanguard, BlackRock, Oppenheimer Funds, T. Rowe, JANA Partners e Ontario Teachers’ Pension Plan Board, il fondo pensione degli insegnanti dell’Ontario. Dietro Moody’s la Berkshire Hathaway di Warren Buffet, uno dei tre uomini più ricchi del mondo, Capital World Investors, ValueAct Capital, T. Rowe, Vanguard, State Street, BlackRock, e il fondo pensione degli insegnanti americani TIAA-Cref. Controllati che controllano i controllori, in un conflitto d’interessi di dimensione planetaria che nessuna autorità sembra in grado di regolamentare.

L’ironia della sorte vuole che proprio questi investitori abbiano delle politiche d’investimento che impediscono ai loro gestori di investire in titoli di stati aventi un rating che non raggiunge un livello ritenuto adeguato. Le politiche di molti fondi pensione americani consentono di investire esclusivamente in titoli di stati aventi la tripla o, al massimo, la doppia A. E nessuno di questi fondi ha interesse ad allentare i criteri che governano le loro strategie d’investimento, poiché essi stessi vengono giudicati dalle agenzie di rating. E’ sufficiente andare sul sito Morningstar.co.uk per ottenere la lista completa dei fondi d’investimento con relativo giudizio. In un mondo finanziario dove le società di rating detengono il monopolio giudiziale, sia sugli strumenti finanziari che sugli investitori, è difficile biasimare il comportamento di molti fund manager che si sono decisi a scaricare dai loro portafogli i titoli di debito italiano, ritenuto ormai troppo rischioso per le loro safity policy. Con la conseguenza che, per poter essere emessi sul mercato, i titoli del Tesoro devono offrire rendimenti stellari, con effetti deleteri sul nostro debito pubblico, in particolare sulla componente interessi.

L’uomo della strada si chiede cosa stiano facendo i politici europei per arginare lo strapotere di queste holding finanziarie. La risposta è poco, per non dire nulla. L’Europa viene messa in ginocchio da un oligopolio di poteri forti senza opporre una adeguata (e sensata) resistenza. Eppure, delle soluzioni per arginare lo strapotere delle agenzie di rating erano state proposte. Si era avanzata l’idea di creare una super-agenzia europea, in maniera che anche l’Europa avesse una istituzione prestigiosa in grado di far sentire la propria voce a livello internazionale. Non se ne è più sentito parlare. Si era parlato di aumentare la concorrenza nel settore del rating. Nulla. Si era detto persino che contro le agenzie di rating si sarebbero intentate cause risarcitorie miliardarie. Tutto svanito. Quello a cui stiamo assistendo è davvero la vittoria della finanza sulla politica, in cui sono i più poveri a perderci. Rimettere in discussione il ruolo di queste istituzioni deve diventare un imperativo per i leader europei. Prima che l’Europa vada in default, con conseguenze catastrofiche per l’economia reale e la coesione sociale di tutti gli stati membri. Come ha detto Draghi, è utile che si cominci a prendere seriamente in considerazione questa possibilità.