I liberal sono contro il “femminicidio” ma giustificano il diritto all’aborto
12 Luglio 2011
di Ross Douthat
Nel 1990, l’economista Amartya Sen pubblicò sulla rivista The New York Review of Books un saggio dal titolo dirompente: “Più di cento milioni di donne sono scomparse”. Si parlava dell’incredibile sproporzione tra numero di maschi e numero di femmine in India, in Cina e negli altri paesi in via di sviluppo. Sen spiegava quel numero con la “trascuratezza” delle donne del Terzo Mondo, nel senso della carenza di cure mediche, di cibo, di educazione. Osservava anche che in Cina, dove vige la legge del figlio unico, “esistono casi acclarati di infanticidi femminili”.
Nel saggio non si parlava di aborto.
Vent’anni dopo, il numero di donne “scomparse” è salito a più di 160 milioni, e una giornalista, Mara Hvistendahl, ci ha fornito un’immagine assai più completa di quel che è accaduto. Lo ha fatto con un libro, intitolato “Unnatural Selection: Choosing Boys Over Girls, and the Consequences of a World Full of Men” (Selezione innaturale: scegliere i ragazzi invece delle ragazze, le conseguenze di un mondo pieno di uomini). Come suggerisce il titolo, Hvistendahl sostiene che la maggioranza delle donne mancanti non sono vittime di “trascuratezza”. Sono state scelte per essere escluse dall’esistenza, e lo strumento della scelta sono stati le tecnologie a ultrasuoni e gli aborti nel secondo trimestre.
Il diffondersi dell’aborto per la selezione del sesso è spesso presentato come nient’altro che un esempio di quel che accade quando la scienza moderna incontra culture patriarcali e misogine. La cultura patriarcale è certamente un fattore da considerare, ma, come sottolinea la Hvistendahl, la realtà è più complessa; ed è ben più deprimente.
Finora, l’emancipazione femminile sembra aver portato non a una diminuzione, bensì a un aumento della selezione del sesso alla nascita. In molte comunità, scrive la Hvistendahl, “le donne usano la loro accresciuta autonomia per selezionare i figli”, perché una nascita maschile porta con sé un innalzamento dello status sociale. In paesi come l’India, la selezione del sesso inizia “nello strato sociale cittadino e bene educato”, prima di diffondersi alle parti più umili della società.
Ma c’è di più. A guardare più da vicino questa storia, si scorgono dappertutto le impronte digitali dei governi e delle associazioni filantropiche occidentali.
A partire dal 1950, le nazioni asiatiche che hanno legalizzato e poi promosso l’aborto, l’hanno fatto con il favore non solo a parole, ma anche finanziario degli Stati Uniti. Scavando negli archivi di istituzioni quali la Fondazione Rockefeller a la International Planned Parenthood Federation, Hvistendahl dipinge una strana alleanza tra falchi repubblicani, convinti che la crescita della popolazione avrebbe diffuso il comunismo, e scienziati e attivisti di sinistra, secondo i quali l’aborto era necessario tanto per “i bisogni delle donne” quanto per “il benessere futuro, o addirittura la sopravvivenza, dell’umanità” – come ebbe a dire il direttore medico della Planned Parenthood Federation nel 1976.
Per molti di questi promotori della denatalità, la selezione dei sessi era una possibilità piuttosto che un problema, dato che una società con meno ragazze non può che riprodursi a tassi ridotti.
Il libro della Hvistendahl’s è ricco di scene sconvolgenti, da quella di un ospedale indiano disseminato di feti femminili a quella dei cartelli nelle strade dei villaggi cinesi durante l’apogeo della Legge sul figlio unico (“Lo puoi colpire a morte! Puoi gettarlo dalla finestra! Puoi abortire! Ma non puoi farlo nascere!”). I brani più angoscianti sono però quelli in cui occidentali progressisti e coscienziosi si auto convincono che meno ragazze potrebbe essere proprio quel che ci vuole per le brulicanti società del terzo mondo.
In definitiva, “Unnatural Selection” si può leggere come un’avvincente detective story, ed è scritto con la tensione morale propria di chi svela al mondo un delitto mostruoso.
Che genere di delitto? E’ questa la domanda che tormenta il libro della Hvistendahl, e tutto il discutere di quelle 160 milioni di donne scomparse.
La dimensione di quella cifra evoca i genocidi del Ventesimo secolo. Ma, a prescindere dalle colpe del politburo cinese, la grandissima parte degli aborti è stata, e continua ad essere, non forzata. Le classi dirigenti americane hanno contribuito a creare il problema, che però adesso sta entrando in metastasi da solo: quelli che oggi sostengono la necessità di un controllo della popolazione sono molti meno di prima, ma la selezione del sesso si è diffusa inesorabilmente con la possibilità di ricorrere all’aborto, e il rapporto uomini-donne è squilibrato nell’Asia centrale, nei Balcani, nelle comunità asiatiche degli Stati Uniti.
Tutto ciò pone tanti liberal occidentali, Hvistendahl inclusa, in una posizione scomoda. Condividono l’assunto secondo il quale un bambino non nato non è ancora un essere umano, e che il diritto all’aborto è assoluto. La Hvistendahl ha dichiarato esplicitamente il suo agnosticismo sulla questione “quando inizia la vita”, e insiste sul fatto che non ha scritto un libro “che parla di morte e omicidi”. Ma ciò lascia l’autrice in alto mare quando si tratta di definire la vittima del crimine che lei stessa ci ha svelato.
E’ la società nel suo complesso, suggerisce lei, citando dati secondo i quali uno squilibrio dei sessi produce violenza e instabilità. Poi aggiunge: sono le donne dei paesi dove si usano quelle pratiche, perché lo squilibrio tra i sessi è legato all’aumento della prostituzione e al commercio del sesso.
Si tratta di punti importanti. Ma il senso di indignazione che pervade la storia che ci racconta sembra ispirarsi proprio alle donne che non ci sono, non alle conseguenze della loro assenza.
Qui, la tesi antiabortista ha il lavoro facile. Adottando questo punto di vista, possiamo indicare con assoluta certezza quel che implica ogni pagina di “Unnatural Selection”, anche se l’autrice avrebbe difficoltà a dirlo.
La tragedia delle 160 milioni di donne scomparse non è la loro assenza. La tragedia è che sono morte.
tratto dal New York Times
traduzione di Enrico De Simone