I magistrati chiamano, l’Unione obbedisce
13 Luglio 2007
L’ultimo atto del passaggio in aula del Ddl
di riforma dell’Ordinamento giudiziario ci consegna l’immagine avvilente di un Parlamento
che conferma di essere succube delle pressioni esterne.
Ostaggio della debolezza e delle
contraddizioni della compagine di maggioranza, Palazzo Madama non ha esitato a
fare anche del dibattito sul nostro sistema di giustizia lo scenario di un
aspro scontro tra poteri.
Archiviati gli esiti altalenanti delle
votazioni dei giorni scorsi, che hanno visto l’Unione dapprima sorretta dal
voto del Senatore Andreotti e poi sconfitta su una norma relativa al passaggio
dei magistrati dalla funzione inquirente a quella giudicante, il Senato ha
regalato una nuova, vana giornata di gloria al Dl Manzione.
Il nuovo emendamento che, come quelli dei
giorni scorsi, portava il suo nome, rischiava di aprire una crisi di governo
che stavolta avrebbe probabilmente assunto connotati definitivi.
Nel merito, l’emendamento Manzione, benché
dotato di contenuto più pregnante rispetto a quello approvato, con gran
clamore, contro il parere del Governo, affrontava comunque una questione ancora
una volta secondaria e ben lontana dall’argomento che più di ogni altro anima
le speranze di riforma dei pochi autentici garantisti presenti in Parlamento.
Non si, infatti, evitare di sottolineare che
non è sulla separazione delle carriere che il Governo Prodi ha rischiato di
cadere, ma sulla presenza degli avvocati in seno ai consigli giudiziari.
E’ stato davvero singolare assistere ad un
dibattito parlamentare in cui nessuno poneva in discussione l’opportunità e la
ragionevolezza di una tale previsione ed in cui anche le componenti più a
sinistra della maggioranza esprimevano l’esigenza della presenza laica nei
consigli giudiziari, per permettere all’avvocatura di riequilibrare,
nell’ambito di organi che incidono sulla carriera dei giudici e
sull’organizzazione dei Tribunali, lo strapotere della magistratura, che a
volta rischia di trasformarsi in autentica prevaricazione.
E’ stato singolare non solo perché chi, dai
banchi di Sinistra democratica o di Rifondazione comunista, esprimeva una tale
esigenza ha poi bocciato con il proprio voto l’emendamento del Senatore
Manzione, ma anche perché l’Unione, impaurita dall’ultimo scivolone, ha deciso
di attingere a piene mani dalla riserva dei voti dei Senatori a vita, convocati
con urgenza e schierati al gran completo, benché non avessero partecipato nei
giorni scorsi alle discussioni in Aula e in Commissione.
A ricompattare la maggioranza sulla
giustizia non è stato di certo il merito di una decisione politica, ma un vero
proprio ordine di partito, accettato anche da chi, come la Senatrice Rita Levi Montalcini,
di un partito non ha mai fatto parte, con buona pace della necessita di
un’autonoma maggioranza politica espressa a chiare lettere non molto tempo
addietro dal Capo dello Stato.
Il problema è che la compagine di governo
non può riuscire a nascondere che il partito che è stato in grado di emanare un
ordine così autoritario è quello dei magistrati e che l’Aula è stata costretta
a piegarsi alla volontà di un’autorità esterna, secondo logiche del tutto
estranee al nostro sistema democratico.
Oltre che autoritario, tuttavia, il partito
dei magistrati è anche molto esigente e non è detto che l’ossequioso “obbedisco” pronunciato dall’Unione sia
sufficiente a scongiurare lo sciopero indetto per il prossimo 20 luglio.