I manicomi non ci sono più ma per il “matto” che uccide c’è l’ospedale giudiziario
31 Dicembre 2008
Dal delitto di Cogne alla strade di Erba, solo per citare i casi più eclatanti del recente passato, la cronaca nera pullula di episodi nei quali soggetti affetti da gravi disturbi psichiatrici interpretano il ruolo del carnefice. D’istinto, di fronte a questi episodi, l’uomo della strada si interroga sulla bontà di una legge che lascia libero il malato di mente, anche quello potenzialmente più pericoloso, e non più, come prima del 1978, rinchiuso in un ospedale psichiatrico. Ma per la psichiatria moderna la reclusione non rappresenta più una risposta, nemmeno nel momento in cui l’ammalato si rende colpevole di reato. E la realtà del “pazzo” che commette un reato si presenta assai più frastagliata di quella che, semplicisticamente, verrebbe da immaginare quando il mostro finisce sbattuto in prima pagina.
Ne abbiamo parlato con Enrico Zanalda, primario del reparto di psichiatria dell’ospedale di Rivoli, vicino a Torino, e responsabile del dipartimento di salute mentale dell’Asl Torino 3. «La vera soluzione – spiega – è da cercare nella responsabilizzazione del malato. In primo luogo, per renderlo consapevole del fatto che ha commesso un reato, e che per questo deve pagare. In secondo luogo, per renderlo ugualmente consapevole del fatto che è malato, cosa di cui il 90% dei malati psichiatrici non è invece assolutamente conscio, e che proprio per questo motivo ha bisogno di affrontare un percorso adeguato di cure».
Oggi, invece, non è così. Nemmeno a 30 anni da quella “rivoluzione” normativa e culturale chiamata legge Basaglia. Per il malato mentale che commette reato, infatti, si aprono inesorabilmente le porte dell’ospedale psichiatrico giudiziario. Ce ne sono cinque in tutta Italia, dei quali il più tristemente celebre è forse quello di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Modena: la prigione delle “mamme-assassine”.
Nonostante l’affermarsi del modello su cui si basa l’assistenza psichiatrica moderna, definito bio-psico-sociale per via delle diverse implicazioni del percorso di cure, per il malato che uccide, o che comunque infrange la legge, l’unica “cura”, se mai così si può definire, resta una cella con le inferriate alle finestre. Sono circa 400 nel nostro Paese i malati rinchiusi in un ospedale psichiatrico giudiziario: circa la metà per essersi macchiata di reati violenti, un 10-12% invece, perché, spinto dalla malattia, ha commesso reati reiterati. «E’ uno scandalo – dice il professor Zanalda – L’ospedale psichiatrico giudiziario serve solo ad allontanare il malato dalla società, non a curarlo. Ma il malato ha diritto ad essere curato, e non semplicemente recluso».
Per superare questo modello, come più volte in passato si è pensato di fare, occorre modificare quanto dispone la Legge. In primis il fatto che, oggi come oggi, l’imputato riconosciuto totalmente privo della capacità di intendere e di volere venga escluso da ogni tipo di responsabilità del fatto commesso. Una scelta che lascia la vittima del reato senza alcuna possibilità di essere risarcita. La soluzione? «Rendere tutti ugualmente, o quasi, responsabili per il reato commesso, ma con le attenuanti per la malattia psichiatrica» spiega Zanalda. «E poi – prosegue – al posto del carcere e dell’isolamento dal mondo, programmare un percorso alternativo di cure adeguate». Cure che possono anche esulare dal mero approccio farmacologico, che da solo non basta quasi mai a superare l’ostacolo della malattia, ma espandersi anche a percorsi riabilitativi e di reinserimento comunitario. Perché il problema, spiega il professor Zanalda, più che nella malattia in se’, risiede invece nella mancata consapevolezza della propria situazione da parte del malato. «Chi è malato, il più delle volte non ammette di esserlo. Chi collabora, invece, è quasi come se non lo fosse, e il percorso riabilitativo consente in questi casi un ritorno ad una situazione di quasi-normalità».
Un’ultima, ma doverosa, considerazione: chi è affetto da un disturbo psichiatrico non commette più reati rispetto a chi è sano. Lo dimostrano studi, dati e percentuali. Ma se questo è vero, lo è anche il fatto, anch’esso ampiamente dimostrato, di come sia assai più facile che proprio in seno ad una famiglia lasciata ad affrontare in solitudine il problema della malattia di un congiunto possa maturare uno di quelli che la terminologia specifica definisce “reati intrafamiliari”. E sono proprio quelli che così sovente la cronaca ci propone in tutta la loro efferata consistenza.
Questo accade anche perché oggi la famiglia si è molto modificata rispetto al passato: scomparsa la famiglia di stampo patriarcale, si è ridotta anche nel numero dei componenti, tanto che, specie nelle grandi città, percentuali sempre più consistenti di nuclei familiari sono composte da due individui, se non addirittura da uno soltanto. «In situazioni come queste occuparsi del malato diventa un “peso” per tutti, e la famiglia tende così ad espellere ed emarginare la fonte del problema: il malato, per l’appunto» dice Zanalda. «E’ in questi casi che, trascinata la condizione all’eccesso, e divenuta questa ormai insostenibile, può verificarsi il fenomeno violento».
Perché chi è malato non deve mai essere lasciato solo, dietro le sbarre di una prigione. Ma nemmeno la famiglia del malato deve essere abbandonata a se stessa, ad affrontare in solitudine difficoltà e ostacoli che senza l’aiuto della psichiatria non riuscirebbe mai a superare.