I media spengono la luce sul Bahrein ma anche lì le rivolte continuano

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I media spengono la luce sul Bahrein ma anche lì le rivolte continuano

17 Febbraio 2012

Durante quest’anno di “rivolte arabe”, non si è parlato molto del Bahrain. Certo, i media hanno reso noto che ci sono stati disordini e dure repressioni anche lì (con l’aiuto dell’Arabia Saudita e altre truppe del Golfo). Il web ha dato spazio alla sparizione della poetessa ventenne Ayat Al-Ghermezi (e alle minacce inflitte alla sua famiglia), colpevole di aver scritto sul suo blog una poesia contro il re, Hamad bin Isa Al-Kalifa. Data per morta in un ospedale militare lo scorso anno, dopo essere stata stuprata e aver subito torture in carcere, Ayat è stata condannata a un anno di detenzione e ora è agli arresti domiciliari. La ragazza è stata accusata dal governo di opporvisi solo perché lei è sciita mentre lo stesso governo e la Casa regnante fanno parte della minoranza sunnita.

Attualmente il Bahrain sembra finito nel dimenticatoio, ma neanche lì è tornata la calma. Questo lunedì pomeriggio anzi, hanno avuto luogo scontri tra manifestanti e polizia: i più duri da mesi nell’emirato del Golfo. Migliaia di persone stavano partecipando ad una dimostrazione anti-governativa autorizzata, che è culminata in Pearl Roundabout (“Rotatoria Perla”) nella capitale Manama, epicentro della rivolta dello scorso anno. I manifestanti hanno lanciato pietre e bottiglie molotov contro le forze di sicurezza, le quali hanno risposto con gas lacrimogeni e pallini da caccia. A riferirlo sono state alcune testimonianze e fonti dell’opposizione, che naturalmente il governo ha trovato conveniente smentire.

Le violenze sono state più cruente nei distretti sciiti del Paese. Di fatto in Bahrein sta avvenendo – oltre che una ribellione contro un regime tout court – la riproposizione in micro del strisciante conflitto tra le principali fazioni islamiche: quella maggioritaria sunnita e la minoranza sciita (se si considera il mondo islamico nella sua interezza). Naturalmente però ci sono anche le richieste popolari di “miglior lavoro e più diritti”, nonché di un parlamento pienamente eletto dal popolo. Richieste fattesi più pressanti dopo il 14 Febbraio, poiché da un anno a questa parte, nulla di sostanziale è cambiato in Bahrain. Hamad bin Isa Al Khalifa non ha promosso che modeste e irrilevanti riforme e gli oppositori più radicali chiedono la rimozione dello stesso sovrano. 

Proprio dal 14 Febbraio il regime ha rafforzato gli apparati di sicurezza a Manama e nei villaggi circostanti, in particolare quelli sciiiti, dove sono stati creati dei check-point. Una massiccia presenza militare sorveglia la Rotatoria. “Il 14 febbraio è un incubo per il governo”, ha detto l’attivista Sayed Ahmed, allineato proprio con la Coalizione giovanile che da questo giorno prende il nome e che costituisce il più radicale gruppo anti-regime. “Il popolo vuole riforme e finire ciò che ha iniziato”, ha sentenziato Sayed Ahmed.

Il partito islamico Al-Wefaq, conosciuto anche come Associazione dell’Accordo Nazionale Islamico, il principale partito di opposizione, insiste per una soluzione pacifica per raggiungere i suoi obiettivi politici (probabilmente per placare gli animi di chi teme una deriva islamista in Bahrein) e ammette, tramite un suo portavoce, Abdul Jalil Khalil,  che le recenti manifestazioni giovanili sono “uscite dal loro controllo” o comunque di non “poterle controllare” (ma perché avrebbe dovuto farlo? Forse quei giovani  erano affiliati allo stesso partito?). Tuttavia, sempre lo stesso portavoce di Al-Wefaq, afferma che quei giovani estremisti “sono una minoranza” dell’opposizione. E riferisce anche che dal Novembre scorso, 14 dimostranti sono stati uccisi e oltre 800 prigionieri politici rimangono in cella.

La commissione indipendente guidata dall’avvocato per i diritti umani Cherif Bassiouni ha scoperto che, sempre nel novembre 2011, 35 persone, inclusi 5 poliziotti, sono morte in un’agitazione popolare. La famiglia Al-Khalifa, che guida il Bahrein da più di 200 anni ed è considerata “moderata”, è divisa sull’opportunità di negoziare con gli oppositori. Il principe ereditario Salman bin Hamad Al Khalifa, figlio del re, ci ha provato nel febbraio e nel marzo dello scorso anno, ma senza successo. Invece altri sono contrari, come il primo ministro Khalifa bin Salman Al Khalifa e il suo entourage. E dato che gli stessi oppositori sono guidati da un partito islamico, si può ben capire la ragione di tale contrarietà.