I neocon e l’11 settembre. Una svolta valoriale nella politica estera USA

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I neocon e l’11 settembre. Una svolta valoriale nella politica estera USA

10 Settembre 2011

Dopo gli attentati alle Twin Towers, è divenuta evidente l’influenza del neoconservatorismo sulla dottrina Bush – dottrina che si articola in una serie di discorsi enunciati dal presidente a partire dall’11 settembre, che a loro volta hanno trovato piena espressione nella National Security Strategy repubblicana del 2002 e nella sua versione successiva nel 2006. Segnando una decisa inversione di tendenza rispetto alle politiche dell’era Clinton, in particolar modo riguardo all’uso del potere statunitense oltreoceano e all’impiego della forza militare, il neoconservatorismo ha elaborato un quadro originale della situazione internazionale, dal quale gli Stati Uniti emergono come unica superpotenza in grado di promuovere principi dalla valenza universale nel mondo.

Per i neoconservatori, l’11 settembre ha fornito la conferma di ciò che essi già da tempo sostenevano di sapere: ovvero che Osama Bin Laden era legato a doppio filo all’intelligence irachena e che Saddam Hussein finanziava e appoggiava l’operato di Al-Qaeda (1). In quest’ottica, l’attacco alle Torri Gemelle è stato fondamentale affinché l’amministrazione di George W. Bush concedesse fiducia a questi studiosi e prestasse attenzione alle loro proposte per nuovi scenari geopolitici.

Quello che più stupisce è come la persuasione neoconservatrice abbia nondimeno inciso su tutta la tradizione politica statunitense, sino a divenire parte dell’America e del modo in cui questa nazione vede se stessa. In politica estera gli Stati Uniti – a destra così come a sinistra – sono oggi più pronti a valutare il mondo secondo principi valoriali, ed a reputarsene gli indiscussi paladini.

I neoconservatori ovvero i profeti inascoltati: la necessità di ripensare la politica estera americana

 I neoconservatori di prima generazione erano perlopiù intellettuali newyorchesi, provenienti da famiglie ebree o cattoliche che si riconoscevano nel pensiero liberale centrista appartenente alla tradizione euroamericana (Locke, Tocqueville, Paine). Sino agli anni Settanta si erano identificati, pur non senza difficoltà, nel Partito democratico di Wilson, Truman e Kennedy; furono tuttavia il loro risoluto anticomunismo e la critica decisa alla great society a portarli all’emarginazione dal loro stesso ambiente, sospingendoli gradatamente a destra sino al loro ingresso, negli anni Ottanta, nella coalizione che appoggiò la candidatura alla presidenza di Ronald Reagan.

L’anticomunismo rappresentò per i neoconservatori il punto di partenza per tutta una serie di riflessioni riguardanti la politica estera. La mancanza di patriottismo che questi studiosi avevano riscontrato negli Usa durante e dopo la guerra in Vietnam esemplificava a loro parere il decadimento dell’orgoglio nazionale; inoltre, le palesi contraddizioni insite nelle politiche di détente confermavano come il mondo della politica non fosse sempre pronto ad agire per difendere gli interessi degli Stati Uniti. L’America non aveva ancora compreso che la lotta contro il comunismo non rappresentava soltanto una contrapposizione tra interessi strategici, economici e militari; era piuttosto una battaglia tra bene e male. Si trattava di un conflitto tra i valori fondanti dell’esperimento americano – primo tra tutti la libertà – e la nazione sovietica, che rappresentava esattamente l’opposto: il controllo e la pianificazione statale a scapito del progresso e dell’avanzamento individuale (2).

Per queste ragioni, il neoconservatorismo accolse la fine della guerra fredda con malcelato stupore. I membri di questa persuasione, tra i quali alcuni – come Irving Kristol – che sin dai tempi del college avevano dedicato gran parte del loro tempo ad analizzare e criticare le storture del sistema sovietico, non potevano capacitarsi del fatto che improvvisamente (e pacificamente) l’Urss fosse implosa, giungendo a non costituire più un pericolo. A tale proposito, Gary Dorrien riporta i dettagli di una sua intervista a Norman Podhoretz del giugno 1990, in cui il grande studioso si dichiarava ancora dubbioso riguardo alla fine della guerra fredda. Podhoretz esprimeva perplessità riguardo alla decisione di Gorbaciov di voler democratizzare l’Urss; ammetteva tuttavia di non aver strumenti per argomentare che il comunismo potesse ancora rappresentare una minaccia per gli Stati Uniti (3).

Podhoretz non era il solo a credere che la contrapposizione che aveva impegnato gli americani per oltre quarant’anni non fosse affatto giunta al termine. Dick Cheney e Paul Wolfowitz, all’epoca rispettivamente segretario e sottosegretario alla Difesa nell’amministrazione di Bush padre, furono tra coloro che – secondo le parole di quest’ultimo – reputavano che la glasnost fosse soltanto una facciata e che Mosca non avesse affatto abbandonato le proprie mire espansionistiche, come d’altronde confermavano l’appoggio alla Corea del Nord e al governo sandinista in Nicaragua tramite Cuba che Gorbaciov seguitava a concedere. Secondo Wolfowitz, la Russia perseguiva i medesimi scopi di sempre (ovvero voleva ottenere il controllo del mondo libero); soltanto, a costi inferiori e con strategie meno controverse (4).

Una volta divenuta palese la sconfitta del comunismo, tuttavia, i neoconservatori abbandonarono le loro titubanze, ribadendo che il crollo del modello sovietico era la conferma di quanto essi stessi andavano affermando da tempo: ovvero che l’Urss aveva indubbiamente costituito un serio pericolo, ma che la superiorità materiale e morale degli Stati Uniti si era rivelata fondamentale nel decretare l’insuccesso del suo modello economico e culturale. Gli Stati Uniti avevano vinto la lotta contro il male, in virtù della propria grandezza. Come Norman Podhoretz ebbe modo di ricordare in seguito:

I would not deny that the neoconservatives were as surprised as everyone else by the speed with which the Soviet Union eventually collapsed. But it was they themselves who had held out the promise of just such a collapse, as the ultimate reward of the policy they consistently urged on Ronald Reagan: a military build-up, combined with an ideological offensive, and capped by an active challenge to the widespread notion that the West had an interest in the maintenance of the Soviet empire. […] surprised though they were by how fast the Soviet Union collapsed, the neoconservatives were not surprised by the collapse itself. They felt vindicated by it, and rightly so (5).

Dopo il crollo del muro di Berlino, i neoconservatori ritennero dunque di avere sempre promosso, e più di ogni altro, l’approccio corretto da adottare affinché il sistema sovietico non potesse nuocere al loro paese. Attraverso l’impegno militare, la contrapposizione ideologica e la lotta in patria all’accondiscendenza nei confronti del comunismo, l’Urss era finalmente implosa. Da qui la necessità di ripensare la politica estera statunitense all’alba di una nuova era, affinché la matrice vittoriosa della dottrina neoconservatrice potesse affermarsi su più larga scala. Chi meglio dei neoconservatori, che non solo avevano identificato le problematiche valoriali nella contrapposizione con i sovietici, ma avevano fornito modelli interpretativi e d’azione che si erano dimostrati efficaci, era in grado di tracciare la strada verso il terzo millennio?

Questi studiosi insistevano sul fatto che, seppur il grande nemico dell’America si era disgregato di fronte alla netta superiorità economica, militare e culturale degli Stati Uniti, questo non significava certo che le sfide che si ponevano sul cammino degli Usa fossero terminate. Come scrissero William Kristol e Robert Kagan nel saggio «The Present Danger», che avrebbe poi costituito lo spunto per pubblicare un’omonima raccolta (6), il fatto che gli equilibri internazionali apparissero relativamente stabili e favorevoli agli Stati Uniti, e che non fosse ancora sorta una nuova minaccia definita e concreta all’orizzonte, non significava affatto che gli Usa potessero concedersi una «pausa strategica di riflessione» (7). Terminata la guerra fredda, il vero pericolo era che l’America – la potenza che dominava il mondo e della quale dipendevano la tutela dei principi democratici e il mantenimento della pace a livello internazionale – abbandonasse le proprie responsabilità. Il vero pericolo, argomentavano i due studiosi, era il declino della forza, il tentennamento della volontà, la confusione riguardo al ruolo degli Stati Uniti nel mondo. L’indifferenza, l’agire eccessivamente misurato e la distrazione avrebbero portato l’ordine internazionale – quello stesso ordine che gli Usa avevano creato – al collasso.

Rispetto al conservatorismo tradizionale, i neoconservatori concepivano dunque la politica estera in modo più spregiudicato. Nutrivano (e a tutt’oggi nutrono) una fiducia quasi illimitata nella potenza americana, sostenendo che l’applicazione del potere degli Stati Uniti in ambito internazionale porti necessariamente al bene dell’America, e nella maggioranza dei casi anche al bene per il resto del mondo. Già negli anni Novanta tali convinzioni si rivelarono di grande attrattiva per alcuni personaggi di spicco del mondo politico Repubblicano, che da Washington seguirono con interesse la parabola del neoconservatorismo, condividendo con questa persuasione l’analisi della situazione internazionale e la concezione di una politica estera audace – tra tutti, i già citati Paul Wolfowitz e Dick Cheney. Questi ultimi andarono poi a costituire il gruppo dei cosiddetti Vulcans, i consiglieri per la politica estera che anni dopo avrebbero curato la campagna presidenziale di George W. Bush (8).

Nel 1992, su richiesta di Cheney, la squadra del Pentagono di Wolfowitz di cui facevano parte anche Zalmay Khalilzad e Lewis “Scooter” Libby elaborò una prima versione della nuova strategia per la difesa nazionale: uno studio di quarantasei pagine di sapore indubbiamente neoconservatore indirizzato ad impedire il nascere di un nuovo potere rivale dell’America, legittimare la guerra preventiva e promuovere un ruolo di preminenza degli Usa nel mondo. Questa prima versione della Defense Planning Guidance, seppur classified, giunse al «Washington Post» ed al «New York Times» e fu da essi duramente criticata; in seguito alla fuga di notizie, il presidente Bush senior diede alla squadra l’ordine di riscrivere – e ammorbidire – il documento. Ciò nonostante, la stesura di Wolfowitz rimase in circolazione per parecchie settimane ai vertici più alti del Pentagono, riscuotendo la pubblica approvazione di Cheney e di Colin Powell (all’epoca capo degli Stati maggiori riuniti) e – come ha notato Irwin Stelzer – andò a costituire dieci anni più tardi una delle fonti di ispirazione per la già citata National Security Strategy del 2002 dell’amministrazione di George W. Bush (9).

Durante la presidenza Clinton, il neoconservatorismo diede voce al proprio disappunto per il modo in cui si stava sviluppando la politica estera statunitense, definendola «una delle fasi più disastrose […] per la concezione del ruolo dell’America nel mondo» (10). Secondo Robert Kagan, si trattò di un periodo di «disarmo strategico e morale», in cui Clinton unì vuote minacce e titubanti operazioni militari ad una diplomazia fin troppo conciliante (11). In retrospettiva, Charles Krauthammer identificò le manchevolezze del presidente con ciò che a suo parere contrassegnava la sua amministrazione: l’internazionalismo liberale e il multilateralismo (12). L’internazionalismo liberale si era affermato tra i Democratici dopo gli anni di passività in politica estera che avevano caratterizzato l’ultima fase della guerra fredda. Improvvisamente l’America liberal iniziò a sostenere la necessità di intraprendere azioni militari multiple sullo scacchiere mondiale, intervenendo in Somalia, ad Haiti e in Bosnia, specificando peraltro che si trattava di interventi prettamente umanitari e non riconducibili ad un’aggressiva politica di potenza. Secondo il neoconservatorismo, fautore di un’accezione molto ampia dell’interesse nazionale che alla difesa dei diritti umani associava la diffusione dei principi americani nel mondo, gli Stati Uniti non potevano e non dovevano certo rinunciare a intervenire nel panorama mondiale come sostenevano gli isolazionisti; erano tuttavia tenuti a proiettare il loro potere oltreoceano non solo in difesa dei diritti umani, come argomentavano i Democratici, ma anche per salvaguardare i propri interessi economici, politici e strategici. Una restrizione della possibilità di agire militarmente all’esclusività dell’“intervento umanitario” era inconcepibile.

Oltre alla legittimazione che Clinton concedeva all’interventismo esclusivamente in nome dell’internazionalismo liberale, si doveva poi considerare il multilateralismo sottoscritto dalla sua amministrazione nel rapportarsi alle strutture soprannazionali e agli alleati tradizionali dell’America – multilateralismo che, secondo i neoconservatori, portava il presidente all’inerzia e alla contrattazione con i regimi tirannici. Il multilateralismo voleva distruggere la potenza americana, ridurla in tanti pezzi cosicché l’America potesse entrare a far parte di una struttura globale di cui sarebbe stata solo un altro docile componente. Per utilizzare un’altra immagine di Krauthammer: gli Usa sarebbero finiti come Gulliver, un gigante costretto da mille lacci e laccioli (13).

In quegli anni, fondamentale per i neoconservatori si rivelò la guerra in Bosnia. Allontanandosi drasticamente dalla posizione conservatrice rappresentativa del Partito repubblicano, che sostanzialmente voleva gli Stati Uniti lontani da un conflitto che non li riguardava (14), il neoconservatorismo chiese a gran voce un intervento militare che difendesse i bosniaci dalle azioni di pulizia etnica dei serbi. Le argomentazioni dei neoconservatori a favore dell’intervento rappresentarono uno stacco anche dal fronte liberal, coerentemente con le critiche mosse all’amministrazione Clinton: secondo quest’ultimo infatti, l’azione in Bosnia era necessaria poiché si riconduceva alla legittimità dell’intervento umanitario, ma sarebbe stato più opportuno operare all’interno della cornice delle Nazioni Unite e preferibilmente senza ricorrere alle armi. Invece, come rimarcavano fortemente i neoconservatori, l’America aveva non solo l’obbligo morale, bensì anche un certo tornaconto nell’impedire il massacro, poiché permettere questo tipo di aggressioni brutali avrebbe contribuito a rendere il mondo un luogo niente affatto sicuro e sempre meno disposto a rispettare le regole della pacifica convivenza (15). Le strutture internazionali, notava Joshua Muravchik, avevano già dato ampia prova di immobilismo e incapacità nel gestire la situazione. Così si consumava la tragedia di un popolo, senza che nessuno – seppur per ragioni differenti – fosse in grado di intervenire rapidamente ed efficacemente. Si veniva meno dunque non solo alla difesa dei diritti umani dei bosniaci, argomentazione cara al fronte democratico; bensì anche all’interesse nazionale statunitense, così importante per i Repubblicani.

Per questo motivo, secondo il neoconservatorismo gli Stati Uniti erano tenuti a intervenire sullo scacchiere mondiale in modo deciso, non ricusando a priori l’uso della forza. Ciò nonostante, gli Usa seguitavano ad ignorare la chiamata al ruolo di superpotenza che la storia aveva loro elargito, negando la propria eccezionalità. L’America si trovava così a vagare spasmodicamente da un intervento umanitario all’altro, prendendo decisioni senza la necessaria fermezza, cercando consenso dove non si poteva trovare e tentando invano di creare confluenze tra i propri interessi e le pretese moralistiche del fronte liberal (16).

In merito al dibattito allora in corso riguardante la missione americana nel mondo, Irving Kristol intervenne in modo quasi presciente (era il 1996) chiedendosi dove potesse celarsi il nuovo nemico degli Stati Uniti, quel nemico che avrebbe dovuto unire tutti i fronti politici affinché rispondessero alla chiamata del destino. Kristol, non senza una nota provocatoria, si augurava l’apparizione di un nemico minaccioso, dalla connotazione ideologica netta ed incontrovertibile, un nemico all’altezza dell’America insomma, che finalmente avrebbe unificato il paese portandolo all’azione (17). Thomas Donnelly, anch’egli con un certo grado di premonizione, scrisse sul «Weekly Standard» nell’ottobre del 2000 che l’attacco alla Uss Cole di quell’anno, alle Khobar Towers nel 1996 e al World Trade Center nel 1993 (lo stesso World Trade Center che verrà poi colpito l’11 settembre) erano tutti parte di «una strategia ben coordinata e a lungo termine, con la quale si intendevano perseguire scopi manifestamente politici, condivisi da nemici dell’America che agivano in modo risoluto ed erano disseminati in più paesi» (18). Si trattava, secondo Donnelly, di «combattenti mossi da sentimenti antiamericani, non soltanto di animo coraggioso, ma sempre meglio organizzati, ben armati e addestrati », che ricorrevano con efficacia alla violenza per nuocere all’America.

Anche Gary Schmitt e Robert Kagan individuarono una minaccia concreta posta da quegli «Stati canaglia e possibili aggressori» che, una volta venuto meno il deterrente della guerra fredda, erano ora «liberi di perseguire i propri obiettivi in regioni di importanza strategica per gli Stati Uniti ed i loro alleati». Per cui, pur non sapendo esattamente come e quando tale minaccia si sarebbe concretizzata, era necessario creare un «ambiente strategico» all’interno del quale l’America potesse conservare la capacità di difendersi (19). Nel dibattito sul ruolo internazionale degli Usa intervenne anche Bill Kristol, che con Robert Kagan dalle pagine della rivista «Foreign Affairs» auspicava l’instaurarsi di una «egemonia benevola e globale» che mantenesse la preminenza strategica e ideologica degli Stati Uniti nel mondo (20). Secondo i neoconservatori, il primo obiettivo della politica estera statunitense doveva dunque essere quello di preservare e aumentare tale superiorità; ciò sarebbe stato possibile incrementando la sicurezza nazionale, sostenendo gli alleati democratici, promuovendo i propri interessi e difendendo in ambito globale i principi di cui era sostenitrice.

I timori del neoconservatorismo verso le “nuove minacce” erano ancora una volta condivisi dal mondo della politica, o quantomeno da una parte di esso. Nel 1998, nella relazione finale della Commission to Assess the Ballistic Missile Threat, un gruppo di esperti – tra cui ancora Paul Wolfowitz, e James Woolsey, Jr. – metteva in guardia l’America verso alcuni “Stati canaglia” che avrebbero potuto sviluppare missili balistici e danneggiare il paese, ed invocava una reazione decisa per anticipare il pericolo e scongiurarlo prima che esso potesse materializzarsi e colpire (21). Tuttavia, gli appelli di questi uomini politici, così come quelli del neoconservatorismo, non ebbero alcun seguito. Gli Stati Uniti, constatarono tristemente i neoconservatori, non facevano altro che accogliere le rimostranze dei loro alleati europei rivolte alla propria hyperpuissance, tentando di non urtarne la sensibilità; e denunciavano i fallimenti dell’intelligence nazionale augurandosi vanamente che la nuova era della globalizzazione economica e culturale fosse sufficiente a mantenere la pace. Come scrissero Lawrence Kaplan e William Kristol:

We thought it [the Cold War] would always be with us. And when we found during the 1990s that it no longer was, we took a holiday from history, presuming that we could rely on commerce and globalization to achieve peace and stability (22).

Il neoconservatorismo non intendeva però rinunciare alle proprie battaglie. Nel tentativo di influenzare più marcatamente il mondo della politica attiva per promuovere una strategia più consona al ruolo di superpotenza dell’America che non disdegnasse il ricorso alla forza militare, il 3 giugno 1997 William Kristol, insieme a Robert Kagan, fondò il Project for the New American Century (Pnac). Si trattava di un’organizzazione nata in collaborazione con l’American Enterprise Institute, storico think tank a cui erano affiliati numerosi neoconservatori. Il lavoro del Pnac fu fondamentale per ribadire le motivazioni per cui l’America doveva impegnarsi in modo attivo sullo scacchiere mondiale: si trattava, come si è già avuto modo di notare, di constatazioni di carattere prudenziale e morale allo stesso tempo (23). Alla base del lavoro del Project for the New American Century vi era la convinzione che la leadership americana fosse un bene non solo per gli Stati Uniti, ma per il mondo; che tale leadership richiedesse l’uso della forza militare, l’impegno diplomatico e una certa integrità morale; e che troppo pochi fossero i personaggi politici che condividevano l’idea di un’autorità globale statunitense (24). Nello specifico, le finalità del Pnac erano quelle di stabilire chiaramente quando e come gli Stati Uniti sarebbero stati chiamati a sostenere la democrazia al di fuori del proprio territorio, e quali effetti ciò potesse avere sull’equilibrio geopolitico. A tal fine, questa organizzazione si impegnava a promuovere la democrazia nel mondo attraverso pubblicazioni, conferenze, seminari e incontri sulla politica estera, per favorire la nascita di una nuova classe dirigente capace di una presa di coscienza e di una responsabilità politica più attente alla dimensione etica dell’agire americano nel mondo; per propria definizione, sostenere «un apparato miliare forte e pronto ad affrontare le sfide presenti e future; una politica estera che promuova coraggiosamente e deliberatamente i principi americani all’estero; e una leadership nazionale che accetti le responsabilità globali degli Stati Uniti» (25).

Secondo i membri del Pnac, questo implicava necessariamente maggiori investimenti nell’ambito della difesa, per forgiare un apparato militare che potesse far fronte alle sfide presenti e future; una politica estera che promuovesse i principi cardine di libertà politica ed economica oltre i confini degli Usa; il rafforzamento dei legami con gli alleati democratici; la fiera opposizione ai regimi ostili ai valori e agli interessi occidentali; e la sfida ai regimi semi autoritari nel mondo. L’ascendente di questa organizzazione fu decisamente ampio e andò ben oltre la galassia neoconservatrice. Collaborarono ai suoi lavori, o firmarono position papers e missive indirizzate al mondo della politica, personaggi provenienti da diversi schieramenti: a destra, i cosiddetti “falchi” unilateralisti come Dick Cheney e Paul Wolfowitz, da sempre sostenitori dell’eccezionalità americana e di un unipolarismo aggressivo in ambito internazionale; così come i realisti pragmatici, come Condoleezza Rice, Richard Armitage e Colin Powell, i quali ribadivano la necessità di interventi mirati volti a tutelare gli interessi economici e la sicurezza dell’America sulla scena globale. Anche dagli indipendenti, e persino da alcuni liberali, giunse in maniera ufficiosa l’appoggio all’unipolarismo così come formulato dal Pnac: personaggi di spicco come Joe Lieberman, Zbigniew Brzezinski e Michael Ignatieff sostennero tutti – ben prima dell’11 settembre – la necessità di esercitare la potenza americana per il bene degli Usa e del mondo (26).

L’ascendente del Project for the New American Century fu fondamentale per la politica estera statunitense. Il 26 gennaio 1998 il Pnac pubblicò una lettera indirizzata al presidente Clinton, chiedendo che l’America intervenisse per rovesciare il regime iracheno (27). Il suggerimento fu accolto solo in parte da Clinton, il quale sottoscrisse l’Iraq Liberation Act e lanciò l’operazione Desert Fox; fu tuttavia George W. Bush, con la seconda guerra del Golfo, ad attingere largamente a questo breve documento per giustificare la logica dell’intervento. Tra le altre iniziative del Project for the New American Century che vennero poi attuate negli anni successivi, la relazione Rebuilding America’s Defenses: Strategy, Force and Resources for a New Century, redatta e pubblicata nel 2000 dal Pnac durante la campagna presidenziale di George W. Bush con il chiaro intento di delineare una politica estera unipolare per l’America repubblicana del terzo millennio, che venne riutilizzata nel documento della strategia per la sicurezza nazionale (Nss) del 2002 come base per la nuova «dottrina Bush». Anche il già citato testo Present Dangers. Crisis and Opportunity in American Foreign and Defence Policy, pubblicato da Robert Kagan e William Kristol nel 2000 – al quale peraltro collaborarono alcuni dei Vulcans – fornì spunti interessanti e agì da supporto teorico e pratico per delineare una nuova visione per la politica estera americana, così come poi venne adottata dal quarantatreesimo presidente degli Stati Uniti (28).

Continua a leggere l’articolo sul sito di Ventunesimo Secolo, rivista di Studi sulle transizioni.

Tratto da 11 Settembre. 10 anni dopo, Ventunesimo Secolo – Rivista di Studi sulle transizioni, Anno X, Numero 25, Giugno 2011. Tutti i diritti riservati

Note

[1] September 11 Staff Report, Pnac, 18 giugno 2004, URL: http://www. newameri – cancentury.org/iraq-20040618.htm. Per il discorso di Colin Powell al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, in cui si descrive il legame tra Al Qaeda e l’Iraq: http:// www. white – house.gov/news/releases/2003/02/20030205-1.html.

[2] Si vedano N. PODHORETZ, The Culture of Appeasement, «Harper’s Magazine», n. 255, ottobre 1977; e il notissimo J.J. KIRKPATRICK, Dictatorship and Double Standards, «Commentary», novembre 1979.

[3] G. DORRIEN, Imperial Designs: Neoconservatism and the New Pax Americana, Routledge, New York 2004, p. 14.

[4] P. WOLFOWITZ, Regional Conflicts. New Thinking, Old Policy, «Parameters. U.S. Army War College Quarterly», n. 20, marzo 1990, nota p. 5.

[5] N. PODHORETZ, Neoconservatism. A Eulogy, «Commentary», marzo 1996.

[6]  R. Kagan e W. Kristol (A CURA DI), Present Dangers. Crisis and Opportunity in American Foreign and Defence Policy,, Encounter Books, San Francisco 2000.

[7] R. KAGAN e W. KRISTOL, The Present Danger, «The National Interest», n. 59, primavera 2000.

[8] Riguardo ai vulcans dell’Amministrazione Bush, si vedano I.H. DAALDER e J.M. LINDSAY, America Unbound. The Bush Revolution in Foreign Policy, The Brookings Institution, Washington D.C. 2003, pp. 17-34; J. MANN, Rise of the Vulcans. The History of Bush’s war Cabinet, Viking Penguin, New York 2004.

[9] I. STELZER, Nailing the Neocon Myth, «The Times», 3 ottobre 2004. Per la National security strategy (Nss): URL: http:// www.whitehouse. gov/nsc/nss/ 2002/index. html).

[10] R. KAGAN, The Clinton Legacy Abroad, «The Weekly Standard», 15 gennaio 2001. Si vedano anche J. KIRKPATRICK, Where Is Our Foreign Policy?, «Washington Post», 30 luglio 1993; e P. WOLFOWITZ, Clinton’s First Years, «Foreign Affairs», gennaio/febbraio 1994.

[11] R. KAGAN e W. KRISTOL, The Present Danger, cit.

[12] C. KRAUTHAMMER, Democratic Realism. An American Foreign Policy for a Unipolar World,, AEI Press, Washington D.C. 2004.

[13] Ibid.

[14] Come affermò notoriamente James Baker, Segretario di Stato di Bush padre: «We have no dogs in that fight».

[15] J. MURAVCHIK, U.S. Foreign Policy. Explaining the Debate, Islamonline.net, 30 aprile 2006, URL:http://www.aei.org/article/24302.

[16] I. KRISTOL, A Post-Wilsonian Foreign Policy, «The Wall Street Journal», 2 agosto 1996.

[17] Ibid.

[18] T. DONNELLY, America at War, «The Weekly Standard», 30 ottobre 2000.

[19] R. KAGAN e G. SCHMITT, Now May We Please Defend Ourselves?, «Commentary », luglio 1998.

[20] R. KAGAN e W. KRISTOL, Toward a Neo Reaganite Foreign Policy, «Foreign Affairs », luglio-agosto 1996.

[21] Una versione unclassified della relazione della Commission to Assess the Ballistic Missile Threat è disponibile all’indirizzo http://www.fas.org/irp/threat/bm-threat.htm.

[22] L.F. KAPLAN e W. KRISTOL, The War Over Iraq. Saddam’s Tyranny and America’s Mission, Encounter Books, New York 2003, p. 7.

[23] Al momento dormiente, non è da escludersi che il Pnac torni ad esercitare le proprie attività in un futuro non lontano, proprio come accade per la Committee on the Present Ranger.

[24] Dalla homepage del Project for the New American Century: http://www. – newamericancentury.org.

[25] Statement of Principles, disponibile sul sito www.newamericancentury.org. La traduzione italiana è tratta da J. LOBE E A. OLIVIERI, I Nuovi Rivoluzionari – il pensiero dei neoconservatori americani, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 66-69.

[26] Z. BRZEZINSKI, Order, Disorder and the U.S. Leadership, «The Washington Quarterly », vol. 15, n. 2, primavera 1992; e M. IGNATIEFF, The Burden, «The New York Times Magazine», 5 gennaio 2003. 27 An Open Letter to President Clinton. Remove Saddam from Power, Pnac, 26 gennaio 1998, URL:http://www.newamericancentury.org/iraqclintonletter.htm.

[27 ] An Open Letter to President Clinton. Remove Saddam from Power, Pnac, 26 gennaio

1998, URL:http://www.newamericancentury.org/iraqclintonletter.htm.

[28] Rebuilding America’s Defences, Project for the New American Century, URL:http://www.newamericancentury.org/RebuildingAmericasDefenses.pdf. Il testo R. KAGAN e W. KRISTOL (A CURA DI) è invece Present Dangers. Crisis and Opportunity in American Foreign and Defence Policy, cit.