I neocon prevedono un democratico alla Casa Bianca

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I neocon prevedono un democratico alla Casa Bianca

I neocon prevedono un democratico alla Casa Bianca

23 Gennaio 2008

L’American Enterprise Institute, storico think tank che dal 1943 si occupa di promuovere la ricerca e il dibattito in merito a temi di economia, politica, benessere sociale, istruzione e immigrazione, dimostra ancora una volta la propria centralità nell’ambito intellettuale statunitense con una puntuale analisi elettorale che proseguirà sino al voto presidenziale del 4 novembre. È difatti dal 1982 che l’AEI segue i caucuses repubblicani e democratici, così come le primarie, con grande attenzione; in linea con questa tradizione, una commissione di esperti, giornalisti, analisti e  politologi d’oltreoceano approfondirà in questi mesi il dibattito sui temi che andranno a decidere il futuro degli Stati Uniti.%3C/p>

La prima considerazione avanzata dagli studiosi dell’American Enterprise Institute durante il loro incontro iniziale per l’election watch 2008, riguarda il clima politico negli Stati Uniti. I sondaggi, spiega Karlyn Bowman, scienziata politica ed editorialista, non sono incoraggianti né per il Presidente in carica né per il Congresso. Il gradimento di questi ultimi secondo le recenti statistiche ha raggiunto il minimo storico nel luglio 2007, e da allora non è ancora riuscito a superare il 40%. Questo chiaramente va a influenzare l’opinione dei votanti in merito a quanto un nuovo Presidente repubblicano sia da ritenersi abile, ed affidabile, per governare il paese. Anche per quanto riguarda complessivamente il Partito Repubblicano, e non solo i suoi candidati, il Grand Old Party non appare così convincente nemmeno al suo stesso elettorato: la cosiddetta voter self-identification, ovvero la capacità e la volontà dei cittadini di riconoscersi in un dato schieramento politico, vede i democratici in netto vantaggio – evidenziando così l’immagine di un Partito non solo solido, ma ben organizzato in quanto capace di creare consenso politico intorno ad una propria identità definita che i propri sostenitori a loro volta approvano e appoggiano.

Una seconda valutazione compiuta da Bowman riguarda le questioni più importanti che verranno affrontate nei caucuses e durante la campagna presidenziale: quei temi che, in ultimo, decideranno il prossimo Presidente degli Stati Uniti. La notizia più interessante è certamente che gli americani, nonostante la crisi dei mutui subprime, non sono eccessivamente impensieriti da un’eventuale recessione economica; il cittadino medio considera il mercato finanziario relativamente solido, reputa sicuri i propri investimenti e in generale è ottimista riguardo alle proprie disponibilità economiche.

Anche la presenza delle truppe statunitensi in Iraq viene percepita sempre meno come un problema di difficile soluzione: la maggior parte dei cittadini appoggia la svolta del Generale David Petraeus dopo la surge, e contempla con diffidenza le opzioni politicamente polarizzate di ritiro immediato o aumento delle truppe. Nel complesso, sia i repubblicani che i democratici sono a favore di un ripiegamento graduale del contingente militare americano, finalizzato a un passaggio di consegne che permetta alle autorità irachene di tenere sotto controllo autonomamente le insorgenze e di garantire la sicurezza e la democrazia in Iraq.

Una terza riflessione su cui si interroga l’American Enterprise Institute è quella avanzata da Norman J. Ornstein, scienziato politico ed esperto di politiche pubbliche, il quale rileva come quest’anno i due partiti in corsa siano particolarmente diversi: non solo in base alle dottrine filosofiche sulle quali si fondano, bensì anche in termini di priorità politiche, opinioni su temi specifici, e concrete strategie d’azione. Di fatto, nota Ornstein, il clima generale sembra già da ora favorire i democratici. Se la guerra al terrorismo seguita a retrocedere tra i temi di importanza primaria per l’elettorato, tutte le questioni di politica interna – in particolar modo la sanità, l’occupazione, l’immigrazione e l’economia nazionale – diverranno assolutamente centrali: e su questi argomenti, come ha convenuto anche l’eminente analista politico David Frum, l’elettorato preferisce la posizione dei democrats. Tuttavia, non è da escludere che gli eventi geopolitici possano repentinamente e in maniera inaspettata cambiare queste priorità: ad esempio, un attacco terroristico potrebbe riportare alla ribalta il tema della sicurezza, favorendo i repubblicani.

Ornstein pone in ogni caso al centro della battaglia elettorale tra i democratici il confronto tra Hillary Clinton e Barack Obama: lo studioso sottolinea comunque come il candidato vincente all’interno di questo schieramento non emergerà prima del 5 febbraio, data in cui si svolgeranno le primarie presidenziali nazionali. Concorda anche Michael Barone, analista politico per USNews & World Report, il quale vede all’orizzonte il fallimento della nomination di John Edwards, già candidato alla vicepresidenza con John Kerry. La sfida tra i potenziali candidati repubblicani resta invece decisamente confusa: la frammentazione dell’elettorato, unitamente alla mancanza di comunicazione e di accordi precisi tra i vari vertici politici ed economici all’interno del Partito, rende più difficile scegliere tra candidati già differenti per età, formazione politica, competenze, e orientamento valoriale.

La vera sorpresa, conclude Ornstein, è indubbiamente l’acuirsi ed esplicitarsi delle preferenze religiose, che insidiano quello che solo qualche mese fa appariva come un duello esclusivamente tra Rudy Giuliani e John McCain. Mitt Romney, ex governatore del Massachusetts, ha già raddoppiato il consenso intorno alla propria persona dal momento della sua candidatura ad oggi; mentre ancora più rilevante è l’affermarsi del predicatore battista Mike Huckabee tra i cristiani conservatori, quell’elettorato che già nelle precedenti elezioni decretò la vittoria di George W. Bush e che ora -con il 73% degli americani che si autodefinisce “religioso praticante” – può realmente influire sull’orientamento del Partito repubblicano.

In merito ai successi conseguiti sinora da Huckabee si è espresso anche il vicepresidente dell’AEI Henry Olsen, ex avvocato ed esperto di politiche pubbliche, il quale ha ricordato al Grand Old Party che il messaggio del candidato battista poco si allinea con il sentimento conservatore espresso dai grandi Presidenti del passato repubblicano – primo tra tutti Ronald Reagan, il quale nutriva un’istintiva avversione all’intervento statale negli affari privati. La candidatura di Huckabee, prosegue il Presidente dell’AEI, mira ad introdurre in America una variante della cemocrazia cristiana europea; preme affinché gli Stati Uniti sviluppino un apparato governativo maggiormente centrista, attivo negli affari interni, che – pur riconoscendo la proprietà privata – privilegi la redistribuzione delle risorse tra i meno abbienti e sostenga attivamente i valori tradizionali. Muoversi in questa direzione, afferma Olsen, sarebbe immorale oltre che improduttivo: improduttivo, perché i Paesi europei che sin dalla Seconda guerra mondiale sono stati governati dalla democrazia cristiana (Germania, Italia, Belgio, Olanda) hanno oggi un prodotto interno lordo decisamente inferiore a quello statunitense, una più alta percentuale di unioni extraconiugali, un tasso di natalità inferiore agli USA e un maggiore tasso di disoccupazione; e immorale, perché la democrazia cristiana non è parte dell’eredità storica degli Stati Uniti, anzi su alcuni punti centrali si muove in direzione opposta rispetto al grande conservatorismo di reaganiana memoria. La fede, sostiene Olsen, non deve definire i contenuti del conservatorismo statunitense, perché quest’ultimo non nasce dalla religione ma dal founding.

Guardando all’eredità dei Padri Fondatori, il conservatorismo ribadisce la libertà di vivere la fede, ed è per tradizione a favore dell’iniziativa privata e della scelta libera e responsabile. Per questo motivo, il Partito repubblicano non può ispirarsi ai principi della cristianità per formulare le proprie proposte politiche, sebbene nel concreto rimane coerente con essi. Da qui, la riflessione di Olsen sull’impossibilità di riconoscere Huckabee come candidato ufficiale del Partito repubblicano. Tuttavia, nei prossimi mesi l’AEI dovrà contrapporre al predicatore battista un’alternativa di altrettanto fascino politico e sociale. Mai come ora il Grand Old Party deve riscoprire la sua identità, per affermarsi con successo nel nuovo millennio.