I neoconservatori sono tornati perché l’America ha bisogno ancora di loro
03 Febbraio 2010
Il neoconservatorismo era dato per morto, “sepolto nelle sabbie irachene”. Però continua a esistere, non soltanto ispirando la politica estera del Partito repubblicano ma anche – come affermano i suoi sostenitori – nelle scelte di Obama, che, senza alcun imbarazzo, ha abbracciato la potenza militare americana. Nonostante la sua importanza (o forse proprio per quella), i funerali di Irving Kristol, lo scorso settembre, sono passati quasi inosservati. Qualcuno si aspettava l’apparizione di Dick Cheney, ma né lui né alcun altro leader repubblicano sono andati alle esequie. Un comportamento ingrato, tenendo conto dello straordinario contributo dato da Kristol al GOP: fu lui a dare base teorica e autorità intellettuale a quello che lui stesso, alle origini, chiamava “il partito stupido”. Nessun leader repubblicano era lì, né vi era alcuno degli aspiranti candidati per il 2012; neanche Sarah Palin, che proprio il figlio di Kristol, Bill, ha aiutato a diventare un fenomeno politico.
La presenza di circa duecento persone non era insignificante, per carità, ma dentro il gigantesco santuario della Congregazione Adas Israel, costruito in un’epoca – era il 1951 – in cui gli ebrei americani della generazione di Kristol senior vollero proclamare che finalmente avevano trovato casa, appariva minuscola. Le caratteristiche panche di Borgogna erano rimaste vuote. Adas Israel è la congregazione conservatrice più potente di Washington, quella alla quale ogni ambasciatore israeliano negli Stati Uniti ha appartenuto. Quando è arrivato il momento degli elogi funebri, invece della solita parata di celebrità soltanto due persone – il rabbino e Bill Kristol –hanno parlato, e brevemente. Quaranta minuti, ed era tutto finito.
Ma la forza del neoconservatorismo, la “convinzione” intellettuale e politica (come lui stesso la definì) che Irving Kristol prima lanciò e poi guidò, non è mai stata nel numero, ma nel volume di fuoco e nella ferocia. E se il vecchio Kristol – la cui bara giaceva stranamente defilata sotto il palco, sistemata tra una bandiera americana e una bandiera israeliana – fosse stato in grado di dare un’occhiata agli astanti, sarebbe comunque rimasto soddisfatto. Perché sulle panche sedeva anche la sua progenie, non solo biologica ma soprattutto intellettuale; ed era una frazione sorprendente dei presenti.
Proveniva dalle redazioni di quelle pubblicazioni edite dai neoconservatori, come la Weekly Standard di Kristol, o per le quali i neoconservatori lavorano, come il Washington Post e il Wall Street Journal. Altri venivano dai “think tank” dove i neoconservatori si incontrano, in particolare dall’American Enterprise Institute (AEI). C’erano volti della guerra in Iraq, con la quale i neocon sono inestricabilmente coinvolti, come l’ex vicesegretario alla Difesa Paul Wolfowitz (in una delle sue rare apparizioni pubbliche) e il primo amministratore civile del paese, Paul Bremer. Charles Krauthammer, l’appassionato e influente opinionista del Washington Post, e il politologo Francis Fukuyama (caso assai raro di neocon pentitosi e poi tornato all’ovile) non si erano parlati per anni – da quando Fukuyama aveva criticato le rosee previsioni sulla guerra in Iraq fatte da Krauthammer nel 2004 in una conferenza tenutasi all’AEI – ma la morte di Kristol li ha fatti incontrare di nuovo, sia pure in parti diverse della sinagoga. Anche l’ala più tradizionalista del partito repubblicano, quella che in un certo senso è stata sbaragliata dai neocon, ha reso il suo omaggio: George Will, che arrivò a definire la guerra in Iraq “uno sbaglio enorme”, ha presenziato rispettosamente alle esequie. Con la sua dialettica insolitamente apolitica, a volte anche soave, Bill Kristol non poteva trattenersi dal gongolare di fronte alla proliferazione dei neoconservatori: “Manipoli, legioni, orde devono sembrare, a quelli che non la pensano come noi”, disse una volta.
Come lui, molti neocon hanno ereditato le loro convinzioni di destra, piuttosto che adottarle (al contrario di Irving Kristol, per lungo tempo un democratico). Tecnicamente, non c’è niente di “neo” in conservatori come Robert Kagan, storico ed editorialista del Washington Post, o in John Podhoretz, editore di Commentary. Entrambi sono figli di padri del neoconservatorismo. In effetti, nessuna tendenza politica, in America, è più dinastica di questa. Accade come nel partito di destra israeliano Likud, le cui idee su religione, politica e mondo sono spesso condivise dai neoconservatori. L’analogia, in ultima analisi, è inesatta, però entrambi i gruppi vantano recenti legami con l’Europa e si ritengono vittime dell’Olocausto, che li ha lasciati feriti, diffidenti e, a volte, bellicosi; determinati a non essere mai più ingenui, a non fidarsi mai più delle buone intenzioni del mondo. Entrambi i gruppi hanno speso anni e anni ai margini della politica, prima di arrivare, miracolosamente, a contare nella geografia del potere; entrambi hanno generato “principi” che hanno annullato le contrapposizioni generazionali, alleandosi con i propri, regali padri. Quando Bill Kristol si è alzato per elogiare Irving, quella mattina, in realtà ne stava raccogliendo lo scettro.
Se quel giorno, a 96 ore dalla dipartita dell’89enne Kristol, aveste digitato su Google “neoconservative” (neoconservatore) e “death” (morte), avreste trovato gli annunci a lutto per il decesso – da molti anticipato, e in diversi casi desiderato – di quella dottrina. Sia da destra che da sinistra, il neoconservatorismo era considerato una forza estinta. Le sue idee, scriveva la rivista Foreign Policy, “giacciono sepolte nelle sabbie irachene”. Ma i necrologi possono risultare prematuri. In questo momento, infatti, i neocon sembrano risorti. Uno di loro, Frederick Kagan dell’AEI (il fratello minore di Robert), ha aiutato a dare una svolta in Iraq facendo pressioni per il surge, ossia un aumento delle truppe, in quel teatro. Più di recente, il presidente Obama – i cui discorsi (sfumati, multilaterali, interdipendenti) e il cui stile (autocritico, conciliatorio, collegiale) in politica estera sono un ripudio della categoricità neocon – si è incamminato sulla loro strada; o almeno, così dicono. Perché, primo, ha mandato altri 30 mila soldati in Afghanistan, quasi quanto volevano mandarne i neocon; ai quali poi il suo discorso di accettazione del Nobel – col riconoscimento della necessità di usare la forza, il cenno ai dissidenti in Iran e altrove, il parlare di bene e male – è risultato sorprendentemente congeniale.
E’ stato vissuto quasi come un segnale di riscossa il fatto che un nigeriano con una bomba nei pantaloni rischiasse di far precipitare un aereo su Detroit il giorno di Natale; per i neocon è stata una specie di rivincita, da cui hanno tratto una nuova carica. Obama, che aveva dovuto tornare in modo più ficcante sulle proprie dichiarazioni dopo un’iniziale discorso giudicato “troppo tiepido” da Bill Kristol e altri neocon, era stato – disse Kristol – “aggredito dalla realtà”. E’ stato un evidente omaggio al padre, che molto tempo fa disse che un “neocon” non era altro che un liberal al quale era accaduto qualcosa di spiacevole. “Sia che elogino Obama, sia che lo attacchino, i neocon stanno vincendo” dice Jacob Heilbrunn, curatore della National Interest e autore di They Knew They Were Right: The Rise of the Neocons (2008). “Lo vedono che sposa il surge in Afghanistan ma anche ‘morbido con i terroristi’. In entrambi i casi, il presidente finisce per dar loro argomenti”. Con Obama ulteriormente indebolito dal rovescio elettorale in Massachusetts, un tale processo non può che intensificarsi.
La resistenza dei neocon non deve sorprendere. Perché, come osservano gli storici, gli impulsi rappresentati dai neoconservatori – una visione manichea del mondo, lo zelo missionario, lo sciovinismo, l’idea che “si può fare”, l’insofferenza per le sfumature – sono vecchi come l’America, partendo da John Winthrop e proseguendo per Abramo Lincoln, Woodrow Wilson e John F. Kennedy. Certo, la vecchia matrice è andata guastandosi, e adesso bisogna chiamarsi in un modo diverso (alcuni neocon di spicco, come Wolfowitz e Richard Perle, hanno sempre respinto una tale etichetta). Ma l’argomento sul quale tanto loro stessi che i loro critici più feroci (i quali, va detto, sembrano ossessionati dal neoconservatorismo, a volte morbosamente) sono d’accordo, è che i neocon non sono affatto sul punto di andarsene.
In tutti quegli speranzosi, ma prematuri necrologi viene ricordata la storia del movimento: le sue origini nella caffetteria del City College di New York, verso la fine degli anni Trenta, dove i giovani intellettuali ebrei si incontravano per dibattere sulle varie versioni del trotzkysmo; il loro unirsi, come risposta alla minaccia mondiale del fascismo, nei New Deal Democrats; il loro spostarsi a destra negli anni Sessanta, determinato dalla delusione suscitata dalle politiche razziali e sociali della Great Society. Di loro, fu Irving Kristol quello che non mollò mai, arrivando a confluire nel reaganismo. Più o meno in quel periodo, incitato soprattutto da un altro gigante del neoconservatorismo, Norman Podhoretz di Commentary, il movimento spostò la sua attenzione principalmente sulla politica estera, opponendosi a un’intesa con l’Unione sovietica, sostenendo Israele a spada tratta, prendendo di mira i despoti arabi e i terroristi islamici – adottando sul piano internazionale, come osservato da George Will, quella caratteristica aggressività precedentemente dispensata a piene mani in politica interna.
In quest’ultima trasformazione, il neoconservatorismo alzò la bandiera dell’“eccezionalismo americano”: l’idea – in realtà, più liberal che classicamente conservatrice – secondo cui gli Stati Uniti sono moralmente più in alto di qualunque altra nazione, e si devono comportare di conseguenza; inoltre disdegna la cinica realpolitik di Richard Nixon ed Henry Kissinger, che giudica amorale, e promuove una politica estera aggressiva e muscolare, che anticipi o prevenga problemi, ma su scala mondiale (anche con mezzi militari, qualora sia necessario), e che non sia ostacolata da organizzazioni corrotte o pusillanimi come le Nazioni unite. “Consegnare la democrazia dal cassone di un Humvee” è come Stefan Halper – funzionario del dipartimento di Stato con Reagan e poi consigliere di George H.W. Bush, attualmente titolare di una cattedra a Cambridge – ha sarcasticamente definito queste concezioni.
Forse il modo migliore per misurare la perdurante influenza dei neocon è la frustrazione e la rabbia che essi riescono ancora a provocare nelle fila del Partito repubblicano. Molti dei loro bersagli – ad esempio, Kissinger e Brent Scowcroft – non vogliono parlare di loro (e questi se la godono al pensiero che Kissinger ci ha anche provato, a diventare un neocon). Un repubblicano di spicco che si colloca all’ala più liberal del partito – quella che odia ciò che vede e attribuisce al costoso avventurismo dei neocon in politica estera l’emorragia di voti sofferta dal Grand Old Party nelle elezioni presidenziali e congressuali – li chiama “parassiti”: con il loro scarso seguito elettorale, sostiene, devono attaccarsi a qualcun altro, ad esempio George W. Bush. Si tengono nascosti dietro una cappa di anonimato e il fatto che restino vivi e, soprattutto, influenti è una cosa che a un tempo indigna e desta meravigliata ammirazione nel nostro “repubblicano liberal”, che li paragona a “un’infezione che ritorna”. Aggiunge: “Sono riusciti a rendere perfetta una cosa assolutamente incredibile: prima proclamano chi sono, quanto sono potenti, quanta influenza hanno, e un sacco di gente si mette a scrivere su di loro. Poi, quando le loro politiche vengono ritenute responsabili di disastri, loro non esistono, non hanno niente a che fare con quel problema, non c’erano, insomma si comportano come ragazzini. E chiunque li attacchi è antisemita”.
“Qualunque autentico conservatore parla in privato dei neocon, e in genere non ne parla affatto bene” dice Patrick Buchanan. “Sono vendicativi, per niente collegiali… Una volta che non sei d’accordo, ti ritrovi in una guerra a morte”. Buchanan la racconta così: negli anni Ottanta, i neocon entrarono nel mondo delle fondazioni di destra e, grazie ai finanziamenti che portavano con loro, si impossessarono dell’establishment intellettuale del Partito repubblicano, costruendo contemporaneamente, a loro esclusivo vantaggio, un’elaborata infrastruttura istituzionale meglio finanziata – e più militante e monocromatica – di qualunque istituzione analoga sia schierata a sinistra. Questa struttura ha come epicentro l’American Enterprise Institute, ma si irraggia lontano fino a raggiungere istituzioni quali l’Hudson Institute (rifugio di due neocon rimasti ammaccati sotto l’amministrazione Bush, Douglas Feith e I. Lewis “Scooter” Libby) e la Fondazione per la difesa delle democrazie, diretta dal neocon Clifford May.
Persino il Council on Foreign Relations, istituzione vecchio stile dell’establishment che incarna proprio quei valori – diplomazia, moderazione, rispettabilità – tanto aborriti dai neocon, offre rifugio a due di loro: lo storico militare Max Boot ed Elliott Abrams, il funzionario di Stato ai tempi delle amministrazioni Reagan e Bush che venne giudicato colpevole di aver mentito al Congresso in merito allo scandalo Iran-contras (Bill Kristol, all’epoca capo dello staff del vicepresidente Dan Quayle, aiutò Abrams ad avere il perdono presidenziale). “Di fatto, sono a prova di fallimento” afferma Stephen Walt della John F. Kennedy School of Government di Harvard, tra i più accesi critici dei neocon. “Anche se nel tuo incarico hai sbagliato tutto e le cose che sostenevi si sono rivelate errate, non soffrirai alcuna reale conseguenza, né professionale né politica. Ritorni all’AEI o al Weekly Standard e continui ad agitarti o ad apparire nei talk-show come se nulla, ma proprio nulla fosse andato per il verso sbagliato”. Ma anche per Walt, la resistenza dei neocon è impressionante: “Bisogna farsi forza e ammirarli per come restano aggrappati alle armi, continuando a sparare senza preoccuparsi di quanto siano stati screditati”.
Diversi neoconservatori – Robert Kagan, Randy Scheunemann, Gary Schmitt – hanno giocato un ruolo importante nella campagna elettorale di John McCain. Una seconda e poi una terza generazione di opinionisti neocon, tra i quali Bret Stephens del Wall Street Journal, Frederick Kagan e Danielle Pletka dell’AEI, Jamie Fly e Dan Senor della Foreign Policy Initiative (un’altra produzione di Bill Kristol), si sta facendo adesso conoscere. Nel frattempo, i telespettatori di Fox News, che costituiscono la base del partito repubblicano, pur non essendo del tutto neocon pure, nell’ottica di una politica estera più aggressiva, trovano condivisibile la visione del mondo neocon. Il neoconservatorismo resta, come dice l’ex deputato GOP Vin Weber, “la forza intellettuale dominante nell’elaborazione repubblicana in politica estera”. I leader della scuola alternativa, quella “realista” – Kissinger, Scowcroft, Colin Powell, James Baker – stanno diventando vecchi, e tranne poche eccezioni – come Richard Haass del Council on Foreign Relations – appaiono, neanche avessero fatto un voto di castità, incapaci o persino restii a riprodursi.
“I richiami patriottici e idealistici neoconservatori possono essere più adatti ai giovani di quanto non lo sia la prudenza e il calcolo dei realisti” argomenta Justin Vaïsse, socio della Brookings Institution e autore di un libro di prossima pubblicazione sul neoconservatorismo. “In effetti, non dev’essere esaltante per un giovane essere un realista”. Nel frattempo, è appassita l’ala isolazionista, “paleoconservatrice” dei repubblicani, quella che fa capo a Buchanan. “Molti di loro inclinano verso inquietanti stravaganze: neo confederati, razzisti, xenofobi, sono tipi poco raccomandabili” dice Max Boot, che a volte scrive pezzi d’opinione per il Weekly Standard. “I neocon sono disprezzati per essere bestie con appena qualcosa di umano che devono essere tenute in catene perché altrimenti se ne andrebbero in giro a mangiare bambini o a fare chissà quale scempio; ma quando si dà uno sguardo complessivo allo spettro del pensiero conservatore, ci si accorge che i neocon si collocano al centro. Le persone che più di ogni altro sono portavoce del Partito repubblicano, i Newt Gingriche, i Rush Limbaugh, gli Sean Hannitys… tutti loro propugnano una politica estera aggressiva”. (Fine della prima puntata. Continua…)
Tratto da Newsweek
Traduzione di Enrico De Simone