I numeri (sottovalutati) dell’immigrazione a livello mondiale e quel flusso di ritorno di cui nessuno parla
31 Dicembre 2018
di Vito de Luca
Una ricerca dell’Accademia nazionale delle Scienze degli Stati Uniti (consultabile sul Web), svolta dai docenti dell’Università di Washington Jonathan J. Azose e Adrian E. Raftery, ha mostrato quanto da decenni nessuno studio sul fenomeno delle migrazioni mondiali aveva osato mostrare, ovvero che un terzo dei migranti, dal 1990 al 2015, una volta espatriato in un paese diverso da quello di provenienza, poi ritorna nel paese di origine. I due ricercatori hanno esaminato i flussi migratori per periodi di cinque anni dal 1990, utilizzando le stime messe insieme dalle Nazioni Unite e da altre fonti. Un’indagine originale, che ha riguardato anche i flussi di ritorno, nella quale si è stabilito che la proporzione di persone in movimento, nella fascia temporale presa in considerazione, è rimasta all’incirca la stessa: tra 1,13% e 1,29% della popolazione mondiale, secondo l’analisi degli autori. Oltre a confermare quanto si dice da tempo, ovvero che l’immigrazione, oggi come oggi, è sempre più circolare. Non soIo. L’originalità di questo diverso punto di vista ha messo in evidenza anche che i metodi tradizionali, finora utilizzati, hanno ampiamente sottovalutato il numero di immigrati totali nel mondo.
Mentre le stime comunemente accettate conteggiano la migrazione globale fino a 46 milioni ogni cinque anni tra il 1990 e il 2015, tale numero è invece compreso, come hanno reso pubblico i due studiosi di Washington, tra 67 e 87 milioni, a seconda del periodo di tempo. Perché queste sottovalutazioni, nelle ricerche precedenti? È solo una questione di metodo o dietro si cela un pregiudizio ideologico? Quale impatto avrebbe potuto avere, o avrà, sull’opinione pubblica mondiale, soprattutto in epoca di populismo, il fatto che le migrazioni che si sono succedute nell’ultimo quarto di secolo sono numericamente superiori, e non di poco, a quelle finora ufficialmente accreditate? E quale potrebbe essere il senso profondo di quel dato che rimarca che un terzo dei migranti circa poi torna nel paese da cui in precedenza era partito? Il fenomeno è complesso e gli stessi analisti che hanno divulgato i dati sull’immigrazione, prima dello studio di Jonathan J. Azose e Adrian E. Raftery, hanno rilevato che le migrazioni, nel mondo, continueranno anche nei prossimi decenni.
Si potrebbe avanzare l’ipotesi di un nascondimento dei dati autentici sulla migrazione mondiale per togliere linfa ai populismi? Al di là di ogni complottismo, vero o presunto, o del tutto inesistente, un elemento però sembra inoppugnabile ed è quello che vede oggi 14 paesi dell’Unione europea su 28 – in pratica la metà – con governi senza una maggioranza in parlamento. Dal Regno Unito di Theresa May (la cui sopravvivenza a Westminster è appesa ai voti degli unionisti nordirlandesi del Dup), alla Spagna di Pedro Sanchez; dai dintorni del Baltico (Estonia, Lettonia e Lituania, ma anche Svezia e Danimarca) a Repubblica ceca, Slovacchia, Croazia, Belgio, Portogallo, Irlanda, per finire con Cipro.
Lo ha spiegato bene Jean-Pierre Stroobants, che su Le Monde ha fatto il conto dei governi minoritari, spiegando sì che l’anomalia è figlia della crisi dei grandi partiti tradizionali, di destra e di sinistra, ma aggiungendo anche che da fattore coagulante oggi agiscono la paura e l’ostilità verso i migranti, la rabbia verso gli effetti della globalizzazione, e, in qualche caso (vedi i Verdi in Germania), i timori per il cambiamento climatico.