I palestinesi hanno bisogno di lavoro e non dell’Assemblea Generale dell’ONU

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I palestinesi hanno bisogno di lavoro e non dell’Assemblea Generale dell’ONU

30 Luglio 2011

Sono davvero interessanti i risultati prodotti da un sondaggio condotto tra il 22 giugno e l’8 luglio dal Greenberg Quinlan Rosner Research in cooperazione con il Palestinian Center for Public Opinion. Con un margine di errore del 3%, a 1009 palestinesi (353 a Gaza, 656 nella West Bank) è stato chiesto di segnalare quelle che –a loro avviso– dovrebbero essere le due principali priorità per il governo guidato dal presidente Mahmoud Abbas. Destando una certa sorpresa, soltanto il 4% degli intervistati ha identificato la propria priorità assoluta negli sforzi per ottenere il riconoscimento dello Stato palestinese alle Nazioni Unite, anzi, una maggioranza schiacciante, oltre l’80%, ha citato la necessità di creare nuovi posti di lavoro. Nello sforzo di combattere la disoccupazione, il 44% ritiene che la soluzione si trovi nel sostegno al microcredito, fondamentale risorsa per aiutare coloro che intendono aprire nuove imprese sul territorio. Insomma, il popolo palestinese vuole che i loro leader si concentrino sulla creazione di nuovi posti di lavoro –oltre al miglioramento della sanità e dell’educazione– mentre praticamente nessuno vede come priorità una dichiarazione unilaterale dello Stato palestinese. Se questo risultato non suona come una bocciatura del programma comune di Hamas e al Fatah, poco ci manca. I palestinesi vogliono mandare un messaggio alla loro leadership politica: il riconoscimento delle Nazioni Unite –un atto puramente politico e privo di qualsiasi conseguenza giuridica vincolante– non darà alla popolazione il cibo e il lavoro necessari a sopravvivere.

Ma il sondaggio condotto da Stanley Greenberg ha offerto numerosi altri spunti di discussione, magari utili ad Hamas e al Fatah per rivedere la loro attuale strategia politica. La maggioranza degli intervistati (il 51% a Gaza e il 59% nella West Bank) ha dato un giudizio negativo su Hamas, soprattutto a causa dell’ormai risaputo supporto iraniano al movimento islamico: è proprio l’Iran, infatti, il pomo della discordia di questa situazione. Il 77% degli intervistati ha candidamente ammesso di guardare con diffidenza verso Teheran, e tra questi ben il 73% si è detto convinto che “l’Iran e il suo presidente, Ahmadinejad, pensino più a loro stessi e alla loro agenda”, piuttosto che ad essere amici del popolo palestinese. E’ un dato davvero interessante considerando che, in uno stesso sondaggio proposto nello scorso mese di ottobre, soltanto il 47% degli intervistati era dello stesso ordine d’idee.

Il recente sondaggio riporta anche un giudizio sostanzialmente positivo dell’opera del Primo Ministro Salam Fayyad, giudizio sostenuto da circa il 70% degli intervistati. Secondo quanto riportato da Stanley Greenberg, in un ipotetico round elettorale Hamas verrebbe seccamente sconfitto dal partito di Abbas e dello stesso Fayyad. Considerando i rapporti con Israele, invece, due terzi degli intervistati supporta gli sforzi diplomatici per una soluzione pacifica della questione, rispetto all’ipotesi della “resistenza violenta”. Tuttavia, non si può non sottolineare come una discreta fetta –pari a circa il 30%- creda che sia il momento di moltiplicare gli atti di violenza, e infatti, Gerusalemme si prepara al rischio di una terza Intifada a settembre. Un dato, comunque, da prendere con le molle, in quanto soltanto il 14% degli intervistati si dichiara pronto a prendere parte a una terza Intifada, alla quale i due terzi dei palestinesi si oppongono apertamente.

Ai palestinesi è stato anche chiesto di esprimersi su cosa ritenessero moralmente “giusto” o “sbagliato” riguardo a una lista di possibili azioni: ebbene, la maggioranza ha seccamente disapprovato la violenza contro i civili. Il 59% si è dichiarato contrario al lancio di missili contro le città e i civili israeliani, e il 42% ha affermato di ritenere “sbagliata” la strage di coloni a Itamar. Un differente –più ostile– atteggiamento, invece, si può cogliere nei confronti dei soldati israeliani, con il 62% che si dichiara favorevole al loro rapimento. Affrontando il caso specifico del rapimento del soldato israeliano Gilad Shalit, tenuto in ostaggio da oltre cinque anni, una percentuale leggermente minore, ma comunque considerevole, si è dichiarata contraria al rilascio del prigioniero, nonostante gli venga negato qualsiasi contatto col mondo esterno, incluse le organizzazioni umanitarie come la Croce Rossa.

Quando è stato chiesto loro di esprimersi su una questione fondamentalmente ideologica, come il diritto di esistere dello Stato d’Israele, il 72% ha affermato che è “giusto” negare che gli israeliani abbiano un legame storico con la città di Gerusalemme ; inoltre, il 53% si è detto in favore dell’insegnamento, nelle scuole palestinesi, di canzoni che incitano all’odio verso gli israeliani.

Un particolare da non lasciarsi sfuggire riguarda l’opinione dei Palestinesi sulla soluzione dei “due popoli in due Stati”. Paragonando i risultati del sondaggio tenuto recentemente, rispetto a quelli dello scorso ottobre, si può segnalare una certa carenza di fiducia dei palestinesi nella fattibilità di questo progetto; anzi, addirittura il 52% dichiara di non accettare più una tale soluzione, mentre solo ad ottobre 2010 il 60% affermava di essere decisamente favorevole a questa ipotesi. Due terzi degli intervistati , inoltre, ha rivelato una certa dietrologia di pensiero, considerando la soluzione dei due Stati separati soltanto come una tappa intermedia verso uno Stato unitario palestinese, da realizzarsi in futuro, in modo tale da riportare tutte le terre dei palestinesi ai “legittimi proprietari”.

Insomma, i risultati del sondaggio proposto dal Greenberg Quinlan Rosner Research offrono degli spunti interessanti per contestare l’azione della leadership politica palestinese; se da un lato possiamo affermare che l’azione puramente ideologica di plasmare la verità messa in atto da Hamas e al Fatah stia funzionando –a giudicare dalle risposte al sondaggio- d’altro canto non possiamo non notare come i concreti bisogni del popolo palestinese –un lavoro, del cibo, lo sviluppo della sanità– non siano in alcun modo perseguiti dai vertici politici, in favore di improbabili –e inutili– obiettivi politici che non allevieranno le condizioni di sofferenza del popolo palestinese.