I pezzi del ‘Financial Times’ dimostrano che sull’euro restano solo le passioni
05 Aprile 2012
Lo scorso 2 Aprile nella pagina dei commenti del quotidiano economico più autorevole d’Europa, il Financial Times, stavano due editoriali, entrambi sul destino dell’euro, portatori di tesi opposte: l’uno a firma Martin Sandbu, editorialista economico in-house del FT, “No break-up: the euro needs parental love”, e l’altro a firma Nouriel Roubini e Arnab Das, “A divorce settlement for the eurozone”. Due articoli simili quanto lo sono il giorno e la notte.
Il tema affrontato è sempre lo stesso: cosa fare dell’euro. Crisi di crescita o canto del cigno? L’euro esisterà ancora nel 2020 oppure le forze centrifughe disgregative messe in moto dall’insostenibilità del modello di spesa pubblica europea e dalla risposta merkeliana alla crisi avranno la meglio? Euro ‘sì’ o euro ‘no’? E’ questo il nuovo grande divide politico che sottotraccia attraversa ormai gran parte delle opinioni pubbliche europee.
L’aspetto ludico di tutto ‘l’incidente editoriale’ del FT – che sia voluto o meno, non conta – è che entrambi gli articoli usino l’allegoria ‘matrimoniale’. Sandbu si concentra sul ‘parental love’, sull’amore genitoriale per chiedere che l’euro torni a ricevere l’amore appunto dei propri genitori – gli europei e le classi dirigenti del Vecchio Continente. L’altro, quello Roubini-Das, parla di ‘divorzio’, o meglio di settlement, d’accordo per il divorzio: quando si sta male insieme, conviene decidere come lasciarsi.
E per quanto venga da pensare che tutto sia frutto di un editore del giornale londinese alle prese con una separazione dalla moglie, il riferimento per l’euro a sentimenti d’amore e di repulsione è rivelatore di qualcosa di più profondo. L’Europa, il suo progetto, il processo politico soggiacente – terribilmente imperfetto perché umano – è l’epifania di un vecchio sogno di dominio: l’unione dei popoli d’Europa. E’ un sentimento, l’europeismo; è pancia, è ideologia. E non stupisce che siano plurime, contrastate, in conflitto, le idee sul futuro dell’eurozona. E’ fideismo irrazionale: o lo si ama o lo si odia.
Che l’Europa sia in crisi è ovvio, e viene ormai riconosciuto anche da celebrità europeiste – generalmente in negazione dei problemi – come l’ex-presidente della Commissione europea, Romano Prodi. Ma quelli che urlano o che velatamente suggeriscono dalle ‘terrazze’ parlamentari, dalle tribune giornalistiche o dai palchi universitari che serve “più Europa per uscire dalla crisi”, sembrano non cogliere il vero nodo del problema. La belle idèe non funziona più. La public commodity della pace tra europei, non è più sufficiente, soprattutto quando altri egoismi (e interessi) nazionali sono così palesi, quelli di Germania in primis.
Ancor prima di rispiegare allora agli spagnoli, agli italiani, ai danesi e agli estoni perché stiamo insieme, dovremmo tornare a chiederci perché i popoli e i governi europei hanno deciso di imboccare la via comune sessanta anni fa. “Le guerre”, si dirà. Certo. Ma la generazione che può ancora raccontare l’orrore della miseria e della morte sta scomparendo ormai.
In soli dieci anni, si è passati dall’euroentusiamo a tratti crasso (molto diffuso in Italia), a un euroscetticismo strisciante che oggi rischia di modificare in profondità il corso della politica europea. A parte i settori politici del partito conservatore britannico, illustri ‘scienziati’ dell’economia, uno su tutti l’americano Milton Friedman, avevano previsto i problemi che l’Europa vive in questi mesi.
In una conversazione privata con l’ex-ministro Antonio Martino, il fondatore della Scuola di Chicago, sibillinamente consigliò “di non distruggere le matrici della lira perché [l’Italia] ne avrebbe avuto bisogno presto”, riferendosi alla vulnerabilità del progetto monetario europeo così come si stava definendo sul finire degli anni ’90.
Il destino dell’euro e del progetto europeo rimarrà questione insoluta ancora a lungo, e non c’è da sperare nel ritorno della socialdemocrazia per rilanciare la solidarietà tra i governi d’Europa (chi nega le ragioni profonde del perché siamo arrivati a questo, difficilmente potrà apportare soluzioni durature). Il primo paese a uscire dall’euro, con buona pace del cancelliere tedesco Angela Merkel, sarà la Grecia (dopo le elezioni presidenziali americane di Novembre?): quel che si chiama un colpo di teatro annunciato.
Certo è, che se di morte si tratterà, il decesso dell’euro sarà più per lento strangolamento che per ghigliottina. Se invece l’euro sopravviverà, ciò accadrà malgrado le vocianti elites politiche d’Europa, i giornaloni (anche quelli autorevoli come il FT), le parrucche d’accademia, gli ex-burocrati e il terrorismo psicologico di chi sempre più insistentemente, urla: “Non sapete cosa accadrebbe senza l’euro!”. Ecco non lo sappiamo e non lo sa nessuno. Può darsi però che per tornare ad amarlo, l’euro, un ritorno alle valute nazionali divenga un giorno l’unica strada percorribile.