I più puri che ti epurano ovvero gli attacchi ‘da destra’ a Newt Gingrich
27 Gennaio 2012
Quante volte si è evocato “l’establishment” del Partito Repubblicano in contrasto con la “pancia” del Paese, con la “piazza” conservatrice, con il movimento grassroots che oggi porta spesso volte il volto dei “Tea Party”? Molte. Né c’è da pentirsene. Occorre però fugare ogni deriva antipatica, quella che titilla palati impresentabili: l’allure, cioè, “cospiratoria”. L’establishment del GOP, infatti, non è una conventicola di congiurati, ma, molto più prosaicamente, un complesso di apparatchik, burocrati, funzionari e peones che in politica esistono solo e sempre per fare il bene esclusivo del loro partito. Di un parte, cioè, del tutto. All’establishment ‒ che è letteralmente quel che quella parola inglese significa, un sistema – non interessa il “come” e il “perché”, ma sempre e solo il “quando”: quando arrivare al potere per poi conservarlo gelosamente, costi quel che costi.
L’esempio oggi più calzante è il senatore Robert Dole, che, a nome dell’establishment, di Newt Gingrich dice: "Non ho mai criticato Newt Gingrich, ma adesso è giunto il tempo di prendere posizione prima che sia troppo tardi. Se Gingrich otterrà la nomination presidenziale del Partito Repubblicano, la cosa avrà un impatto negativo sui Repubblicani candidati per cariche di contea, di Stato e nazionali. Praticamente nessuno di quanti hanno lavorato assieme a Newt al Congresso federale ne ha appoggiato la candidatura alla nomination e questo è un fatto che parla da solo".
Non è farina del sacco di Dole, ma un diktat dell’establishment di cui il senatore porta la voce.
Gingrich sta infatti risalendo nei sondaggi e nei gradimenti del popolo Repubblicano, e questo rompe le uova nel paniere proprio a quell’establishment che da tempo ha deciso di puntare tutto su Mitt Romney per motivi di cui, di per sé, Romney può pure essere innocente.
Settimana scorsa, alla vigilia delle primarie poi vinte da un Gingrich in grande rimonta nel South Carolina, è arrivata la prima, massiccia colata di fango. Adesso che Gingrich parrebbe ben messo per le primarie della Florida del 31 gennaio (alcuni sondaggio lo hanno dato persino in testa) giunge puntuale la seconda. Prima una ex moglie dalla lingua lunga e dalla memoria ad orologeria per fatti pusillimi. Ora nientemeno che un candidato trombato alla vicepresidenza – nel 1976, al fianco di Gerald Ford (1913-2006), emblema dello stesso establishment -, poi candidato segato alla presidenza, nel 1996, dopo una campagna elettorale incolore che portò Bill Clinton a mangiarselo in un sol boccone. Un vecchio arnese, insomma, un cavallo sfiancato che i macchinisti del GOP possono tranquillamente sacrificare senza esporsi in prima persona.
Ora, sarebbero solo beghe interne al mondo americano se non rappresentassero la nuova puntata di un serial antico, quelle dove va in scena lo scontro fra un popolo intero e un pugno di manovratori, il cuore dei “Tea Party” e i colletti bianchi dell’happy hour. Gingrich è anche lui un “vecchio arnese” della politica, persino del GOP. Ma per una qualche ragione non è mai stato digerito completamente dall’establishment Repubblicano. Qualsiasi “colpa” Gingrich abbia commesso (e di cui dovrà eventualmente rispondere), è questo ciò che oggi lo rende più appetibile di altri all’ala destra del partito che sta fuori dall’establishment del GOP e alla galassia conservatrice che di suo sta persino oltre lo stesso Partito Repubblicano.
La macchina del fango è insopportabile, ma questo dissidio è un segno positivo, per Gingrich e per chi lo vota. La cosa peggiore di questa battaglia sono, come sempre, le perdite collaterali, soprattutto se abbattute da fuoco amico. Lecitissimo essere conservatori e non essere convinti che Gingrich sia oggi il miglior rappresentante politico, nel GOP, del conservatorismo autentico, come fanno oggi per esempio la grandiosa opinionista Ann Coulter e il deputato Tom Delay, ex leader della maggioranza Repubblicana alla Camera federale. Ma serve attenzione a come lo si dice. Sennò si finisce per assomigliare troppo a quell’establishment Repubblicano che si è passato una vita degna di essere vissuta e una carriera più che brillante a bistrattare.
Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del Centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana.